L'analisi del G

Il dramma dell'anoressia ora comincia a 8 anni. "Mamma, penso che ho già vissuto abbastanza"

Una madre racconta l'inferno della figlia. È una storia a lieto fine, ma l'età sempre più bassa rende difficile la cura. In Italia ci sono 135 strutture e meno della metà prende in carico pazienti under 14

Il dramma dell'anoressia ora comincia a 8 anni. "Mamma, penso che ho già vissuto abbastanza"

"Io credo, mamma, che dopotutto tredici anni siano sufficienti per aver vissuto» mi disse esattamente così mia figlia Maria Beatrice una sera d'autunno del 2020. Mentre pronunciava quelle parole, che mi gelarono il cuore, era calma, pacata, lucida. Il suo sguardo era lontano. Mi guardava ma era come se non mi vedesse. Mi trapassava. Sguardo che non l'avrebbe abbandonata per lungo tempo. Venivamo da mesi in cui, al manifestarsi dei primi sintomi dell'anoressia nervosa, mio marito ed io avevamo disperatamente cercato professionisti competenti cui affidarci, tra la prima e la seconda ondata di Covid-19. La sera in cui Maria Beatrice pronunciò quelle parole, eravamo appena entrati in una spirale che ci avrebbe portati, in un brevissimo lasso di tempo, direttamente all'Inferno, un inferno che nemmeno nel peggiore degli incubi avremmo potuto immaginare e che l'avrebbe vista, di lì a poco, ben tre volte a un passo dalla morte.

In Italia l'anoressia è la prima causa di morte tra i giovani, dopo gli incidenti stradali. Una persona su tre soffre di disturbi dell'alimentazione e della nutrizione (DAN); il 70% sono preadolescenti e adolescenti. L'anoressia rappresenta l'8% dei DAN, ma è quello che genera più morti. La causa principale è il suicidio.

Come riferisce il dottor Leonardo Mendolicchio, psichiatra e psicoanalista, autore della prefazione di Se bastasse l'amore, direttore del reparto di Riabilitazione dei DAN dell'Auxologico di Piancavallo, l'anoressia ha un'altissima mortalità, ma paradossalmente anche un'altissima percentuale di guarigione. La determinante è che le cure inizino entro i due anni dall'insorgenza e che l'anoressia non si sia cronicizzata. L'età dell'insorgenza si è abbassata sino agli 8 anni, con casi di età persino inferiore, tanto che il dottor Mendolicchio nel 2022 ha aperto le porte dell'Auxologico anche a pazienti in età evolutiva che rappresentano il 30% delle richieste di ricovero. I pazienti provengono dalle Pediatrie di tutta Italia.

L'accesso alle cure, così determinante, non è immediato, per usare un eufemismo. In Italia in questo momento ci sono 135 strutture dedicate e meno della metà prende in carico pazienti sotto i 14 anni d'età. E i preadolescenti affetti da anoressia nervosa, quindi? Chi è a un passo dalla morte, ma dal Pronto Soccorso viene rimandato a casa, cosa può fare? Questo è successo a noi la prima volta, dopo la questua infinita per mesi per un posto letto ovunque purché Maria Beatrice fosse curata. Ed è accaduto in una città all'avanguardia, in un ospedale eccellente. La seconda volta, due giorni dopo, a un passo dalla morte, fu accettata e poi ricoverata in Neuropsichiatria Infantile che non è, comunque, dove dovrebbero essere curati pazienti affetti da DAN. Quanto tempo sarà necessario affinché il Sistema Sanitario Nazionale si metta al passo? Quante vittime ancora?

Scrivere Se bastasse l'amore narrando il percorso vissuto accanto a mia figlia, con il sostegno determinante della mia famiglia, è stato per testimoniare qualcosa che da fuori è inimmaginabile. L'ho fatto attraverso tappe temporali, in un viaggio che metaforicamente va dalla rapida caduta all'Inferno fino alla lentissima risalita verso la luce del Paradiso, descrivendo a posteriori, razionalmente e senza sconti per nessuno, tantomeno per me stessa, le concause che avevano compartecipato all'insorgenza dell'anoressia, i sintomi, gli atteggiamenti, così come le nostre relazioni e dinamiche familiari, la difficoltà di accesso alle cure prima e poi l'estrema complessità dell'interagire con mia figlia quando la sua mente era ormai completamente dominata dal mostro dell'anoressia. Mi sono ritrovata a vivere in tre, chiusi in una stanza 24 h su 24 h: lei, io e il mostro.

Maria Beatrice era molto grave, pesava poco più di 30 chili. Ciononostante, non voleva e non poteva fermare il suo perenne movimento. Questo comportamento compulsivo non le permetteva di sedersi, marciando sul posto, anche coi piedi ormai distrutti. Ho visto il suo corpo seccarsi come una foglia senza linfa, ricoperto da lanuggine da anoressia che serviva a procurarle un po' di calore nel tentativo disperato di poterla salvare mentre i suoi organi cominciavano a non funzionare più. L'ho vista riabbracciare, senza emozione, nella stanza del secondo ricovero, dopo mesi dall'ultimo incontro, la sua sorellina, cui era sempre stata molto legata e una volta che era ripartita, intenta a marciare sul posto, dirmi: «Mamma io non provo più niente per Adelaide». Adelaide, poi scrisse sul suo diario: «Vedere mia sorella che ha tre anni e mezzo più di me, diventata come una bambina piccola, circondata da peluche di Stitch, col sondino che le entra nel corpo e fissato al naso e sul pigiama con del nastro adesivo bianco, la flebo dell'acqua con l'ago nel braccio, la piantana che si tira dietro a ogni passo e quello sguardo assente, senza emozioni, mi sconvolge e mi fa male. L'anoressia si è mangiata mia sorella e la sua mente, giorno dopo giorno. L'anoressia ti cambia e ti distrugge».

In Se bastasse l'amore ho descritto nel particolare, attraverso le parole di Maria Beatrice, le mie e quelle di mia madre, come quel mostro agiva, cosa le imponeva di fare, e illustrato così il precario equilibrio della sua mente in bilico, anche quando sembrava stare meglio, tra il desiderio di sparire e quello di combattere per vivere. Ho deciso che l'avrei scritto due estati fa, sei mesi dopo l'uscita dall'ultimo ricovero, quando, sebbene ancora molto in difficoltà col cibo e sottopeso, Maria Beatrice aveva consciamente ripreso la via della vita. Stavo guidando e, dopo il primo weekend insieme ad entrambe le mie figlie, la prima volta dopo moltissimo tempo, ebbi occasione di riflettere su quanto fossimo privilegiate. Pensai a quelle ragazze che avevo conosciuto negli ospedali e che non ce l'avevano fatta e alle loro famiglie. Parte di quell'incolmabile dolore sarà per sempre anche mio. Ho scritto il libro per poter dare una testimonianza di speranza a chi oggi sta combattendo contro questo mostro invisibile che scardina non solo la vita della persona che ne soffre, ma di tutti i suoi familiari. Per dimostrare gratitudine verso il personale medico e sanitario e per chi, lungo il nostro tragitto, sostenendo me ha compartecipato a salvare mia figlia. E non da ultimo, l'ho scritto per tutte quelle mamme, disperate, perse, affrante che malgrado ciò ogni giorno, in tutta Italia, lottano con tutta la forza possibile per poter far curare la propria figlia e spesso lo fanno nell'indifferenza esterna e con il peso lacerante dello stigma sociale, tanto antiquato quanto assurdo e inaccettabile che identifica loro come la sola e unica causa dell'anoressia della propria figlia. L'ho scritto con la speranza che possa essere utile. Battermi per il diritto alla tutela della salute mentale è per me un dovere morale, soprattutto per chi non ce l'ha fatta e per chi non ha voce per poterlo fare.

*Autrice di «Se bastasse l'amore» (Piemme)

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