Politica estera

Con cento miliardi l’Ue compra cultura e scienza: cosa prevede il piano Horizon Europe

Transizione verde, digitale e inclusività sono i tre comandamenti di Bruxelles. Zero euro a chi dissente

Con cento miliardi l’Ue compra cultura e scienza: cosa prevede il piano Horizon Europe

Un’iniziativa volta a piegare alle ragioni (e agli interessi) della politica larga parte della scienza e della cultura: è solo così che si può definire il massiccio investimento delle risorse dei contribuenti attuato dall’Unione europea nel campo della ricerca. Lo attesta in modo inequivocabile il Piano strategico Horizon Europe adottato lo scorso 20 marzo dalla Commissione europea con l’obiettivo di definire gli orientamenti strategici fondamentali dell’Unione per gli investimenti in ricerca e innovazione.

Lo scopo dei governanti europei - tanto chiaro quanto non apertamente ammesso - è quello di dotarsi di un’accademia sempre più allineata ai propri progetti egemonici; e quindi è ovvio che i finanziamenti andranno a chi esalterà le magnifiche sorti e progressive dell’Unione, da un lato, e a quanti contribuiranno a rafforzare i pilastri ideologici su cui si regge la crescente espansione di Bruxelles. Per capirlo basta vedere su quali temi si concentrano i fondi che l’Unione mette a disposizione dei ricercatori.

Quali sono, infatti, gli obiettivi individuati dal piano e quindi gli studi da sostenere? Un profano potrebbe immaginare che al primo posto vi siano questioni come la lotta al cancro o alle malattie cardiovascolari, la ricerca in fisica e chimica, lo sviluppo di un’agricoltura più efficiente (per debellare definitivamente la fame) e via dicendo. Assolutamente no. Quanti gestiscono la politica europea hanno finalità chiare ed è evidente che essi siano disposti a finanziare soltanto studi che siano a favore delle loro smodate ambizioni. Ecco perché al centro delle ricerche dovranno esserci soprattutto tre questioni: la transizione verde, la transizione digitale e un’Europa più resiliente, competitiva, inclusiva e democratica.

L’aggiustamento dei giorni scorsi punta a definire meglio quali dovranno essere le linee-guida da adottare nel triennio conclusivo: un piano, in effetti, dura 7 anni e quello in corso di attuazione finirà nel 2027. La Commissione ha poi deciso di destinare il 10 per cento del bilancio globale al problema della biodiversità, integrando in tal modo gli impegni già presi in merito alla spesa per il clima, che è intorno al 35 per cento. Se non è propaganda questa, mi si dica di che si tratta. Oltre a ciò un occhio di riguardo sarà per quei progetti che punteranno a valorizzare l’Unione e a superare ogni chiusura sovranista. In altre parole, gli elettori che non vogliono «più Europa» sono costretti a finanziare studi che invece propongono un’espansione illimitata dei poteri continentali.

Una cosa è chiara: la Ue si propone di sostenere quelle indagini - svolte da università e/o da imprese - che siano allineate alle esigenze di una classe politica di eurocrati che vuole rafforzare sempre più le istituzioni comunitarie e costruire un potere irraggiungibile da parte di ogni singolo cittadino. I temi individuati prefigurano le risposte e non è pensabile, ad esempio, che le risorse destinate allo studio della biodiversità possano andare a chi sostenga (e di ragioni ve ne sarebbero tante) che si tratta di una questione meno rilevante di molte altre, ma utile a predefinire una nuova umanità ammaestrata.

Lo stesso vale per il «climatismo», ossia per il fanatismo ideologico di quanti non ammettono discussioni sul global change. Per coloro che tengono i cordoni della borsa della ricerca in Europa, l’ideologia secondo cui il mondo starebbe andando verso una catastrofe imminente a causa della produzione da parte umana di anidride carbonica non accetta scetticismi, né obiezioni. Se nelle università italiane c’è chi vorrebbe il reato di negazionismo climatico, non sorprende che a Bruxelles vi sia chi si preoccupa di usare una sorta di «spinta gentile» (nudge) che induca ogni fisico ad abbracciare le verità ufficiali.

Non si tratta soltanto di destinare quasi 100 miliardi di euro - tale è la somma del piano in attuazione - verso obiettivi più che discutibili. Con questi investimenti ci si propone soprattutto di “formattare” un’intera generazione di nuovi studiosi, dal momento che la politicizzazione della ricerca ha conseguenze quanto mai significative sul sistema di reclutamento universitario.

Diversamente da quanto avveniva ancora pochi decenni fa, chi oggi voglia intraprendere la carriera accademica non deve soltanto scrivere libri e articoli scientifici i cui contenuti siano apprezzati. Ormai è essenziale avere partecipato a progetti di ricerca e nel quadro europeo ormai i più prestigiosi - anche perché meglio finanziati - sono proprio quelli che vengono dall’Unione. Un giovane studioso, allora, si trova a un bivio: o segue scienza e coscienza anche se questo lo porta a occuparsi di questioni che non interessano ai potenti di turno e magari addirittura li infastidiscono; oppure si piega ed entra nel gregge di quanti ripetono le litanie care ai signori del Palazzo.

Quei 100 miliardi sono quindi molto più che uno spreco colossale: sono un potente strumento di corruzione delle menti. Ed è incredibile che nella stessa Europa che aveva conosciuto Giuseppe Bottai, Andrei Zhdanov e Joseph Goebbels non si sia ancora compreso che tra l’universo della ricerca e quello della politica ci debba essere un muro assai spesso, che separi nettamente i due mondi. Poiché non è affatto così, oggi uno studioso gode di legittimazione soltanto se accetta i canoni ordinari di quello che è presentato come vero e giusto: quello che, con una forma anche logora, è spesso indicato usando la formula politically correct.

Da tutto questo discende che il processo di selezione dei ricercatori e dei docenti universitari favorisce soprattutto quanti sono in consonanza con la classe dirigente. E ciò è di cruciale importanza per l’area politica progressista, dal momento che la cultura oggi egemone è in grado di esercitare un potere (culturale) d’interdizione. In sostanza, gli esponenti dell’intelligentsia possono decidere, in una serie di circostanze, chi sia legittimato a occupare certe posizioni e chi no.
Non a caso in Horizon Europe esiste pure un piano per l’uguaglianza di genere quale criterio di ammissibilità: non perché agli eurocrati stiano a cuore le donne, ma perché il tema è una componente non irrilevante del quadro categoriale liberal.

L’integrazione della dimensione di genere nei contenuti della ricerca e dell’innovazione è definito un requisito valutato nell’ambito del criterio di eccellenza. E un altro obiettivo è l’aumento dell’equilibrio di genere in tutto il programma, con un target del 50 per cento di donne nei consigli di amministrazione, nei gruppi di esperti e nei comitati di valutazione. Esiste insomma una verità ufficiale (più o meno quanto sta a cuore a Elly Schlein e a Emmanuel Macron) ed essa va imposta a ogni livello.

Com’è facile vedere, non siamo esattamente in un quadro di pluralismo culturale. Al contrario, siamo entro il recinto di assunti che vengono imposti dall’alto e che predefiniscono l’intero percorso.

L’esatto opposto di quello di cui avrebbe bisogno una ricerca libera e aperta al futuro.

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