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La maschera ridotta a mascherata? Un autogol Lgbtq+

L'industria dello spettacolo sempre più di frequente sfila nelle nostre case sulla passerella del piccolo schermo con vestiti tanto eccessivi, quanto chi li indossa si proclama refrattario a qualsivoglia convenzione

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L'industria dello spettacolo sempre più di frequente sfila nelle nostre case sulla passerella del piccolo schermo con vestiti tanto eccessivi, quanto chi li indossa si proclama refrattario a qualsivoglia convenzione. Non si è salvato l'ultimo Eurovision Song Contest tra abiti simili a pigiami, corone di spine e financo nello pseudonimo dell'acclamato vincitore: Nemo (foto), che letteralmente significa «Nessuno». Nome d'arte che sembra più un'arguta trovata di marketing che non un tributo al multiforme ingegno che salva Odisseo da Polifemo o al capitano di Jules Verne.

La pretesa programmatica di molti artisti è di deporre così sull'ara della creatività il loro essere liberi dinanzi a tutto e a tutti. A parte il sospetto che alla base vi sia il malcelato intento di sbigottire la borghesia, varrebbe la pena interrogare le parole. Perché se «maschera» e «mascherata» si differenziano solo per una sillaba a livello di significante, se si guarda al loro significato sono invece distantissime.

Per averne conferma basta scavare nel passato, aguzzare la sguardo fino al teatro greco del quinto secolo avanti Cristo. Dove le maschere erano certamente indossate per enfatizzare l'espressione di riso o disperazione dell'attore, a seconda che in quel frangente si stesse rappresentando una commedia o una tragedia, ma rivestivano una missione più profonda. La «maschera» doveva infatti nascondere le fattezze di chi recitava, renderlo non riconoscibile a una platea di spettatori che spesso erano suoi concittadini. L'attore, liberato dal peso della propria individualità, poteva così diventare tutti e la finzione scenica assumere un significato universale. Il teatro rappresentava così sul palco del reale la battaglia dell'uomo tra libertà e necessità, tra l'autodeterminazione dell'individuo e il destino che lo sovrasta.

Era la mìmesi del mondo, svolta e riavvolta nel paradosso della simultaneità di due tempi: quello presente alla scena e quello passato intrinseco al contenuto. Perché il materiale da cui attingevano Eschilo, Sofocle o Euripide altro non era che il mito, cioè storie tramandate da un tempo molto precedente a loro. Vicende dalle molteplici varianti ma immutabili nell'epilogo. Era così che l'eroe tragico, accettando il destino senza piegarsi, si imponeva come archetipo di universale grandezza. Altrettanto totalizzante era l'uso della maschera nel teatro dell'antica Roma, pur con alcune distinzioni di scopo e con un'innata maggiore inclinazione verso l'intrattenimento. Tanto che nelle pagine dei vocabolari di latino più diffusi tra liceali e studenti universitari, il primo significato del termine della prima declinazione persona è quello di maschera scenica.

Quanto a oggi, quando la maschera diviene ostentazione, finisce quindi con lo smarrire la sua reale portata. Non solo, la maschera si sgretola, si corrompe fino a trasformarsi in un boomerang che colpisce quella stessa brigata Lgbtq+ che agita la bandiera arcobaleno per reclamare parità di diritti.

Perché una mascherata collettiva, che avvenga nell'etere o nelle piazze poco importa, non può che ridursi a un vuoto Carnevale.

Come insegna anche Pirandello, il passo tra il sublime e il ridicolo è davvero brevissimo. Cerchiamo di tenerlo a mente o, quando cade la maschera(ta), rischia di non restare più nulla.

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