Letteratura

Quei funerali a Milano e la democrazia in lutto

Si salutano le vittime della strage di piazza Fontana. E intanto altrove qualcuno nasconde i colpevoli

Quei funerali a Milano e la democrazia in lutto

Dei funerali delle vittime di piazza Fontana abbiamo tutti un ricordo in bianco e nero. Piazza Duomo piena come non era mai stata, in silenzio come non era mai stata, sgomenta spaventata angosciata arrabbiata come non era mai stata. E composta a lutto come oggi non usa più: gli uomini in giacca e cravatta, le donne con il capo coperto, i negozi tutti chiusi. Il cielo grigio di una giornata invernale e infernale.

«A quest'ora grave e sacra meglio s'addirebbe il silenzio. Ma come pastore d'anime devo interpretare e orientare, alla luce della verità, i sentimenti e le aspirazioni che oggi colmano l'animo di un popolo intero, senza distinzioni di classi. Sono sentimenti di orrore...». Così cominciava l'omelia dell'arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Colombo.

L'orrore di cui parlava l'arcivescovo era qualcosa di nuovo e di irripetibile. Perché fu orrore anche quello che tutti provammo per le stragi successive: l'Italicus, piazza della Loggia a Brescia, la stazione di Bologna. Ma eravamo, come dire, ahimè abituati. Lo sapevamo che si poteva arrivare fino a quel punto. Non lo sapevamo e neppure lo immaginavamo, invece, prima di quel 12 dicembre 1969. Mai s'era vista una cosa del genere. Come può l'uomo arrivare a tanto? Si dice che pezzi dello Stato, uomini che sognavano un golpe per tornare agli anni della loro giovinezza e all'ordine alla disciplina e alla morale, armarono le mani di gruppi neofascisti allo scopo di spaventare gli italiani, i quali avrebbero accettato di rinunciare alla democrazia e alla libertà in cambio della sicurezza. Altri dicono che invece ad architettare tutto non furono elementi golpisti, o meglio c'erano anche loro, i golpisti, ma erano stati strumentalizzati, ingannati, imbrogliati da qualche belzebù democristiano che avrebbe ideato la seguente soluzione all'autunno caldo e agli scioperi: spaventiamo gli italiani con l'estremismo di sinistra e con quello di destra, così si rafforza il centro, così si mantiene lo status quo. Ma può una ragion di Stato arrivare a tanto cinismo e appunto a tanto orrore?

Eppure è certo che le indagini furono deviate. È certo che tante prove vere furono occultate e che altre, false, furono costruite a tavolino. È certo che anche le istituzioni mentirono, come aveva mentito il questore di Milano quando a cadavere ancora caldo di Pinelli, l'anarchico che era volato giù dalla finestra, aveva detto ai giornalisti: «Era fortemente indiziato, il suo gesto equivale a una confessione». E invece Pinelli non c'entrava nulla.

Alla metà degli Ottanta fui assunto al Corriere della Sera su indicazione del capocronista, Arnaldo Giuliani. Suo padre, Sandro, era stato caporedattore del Popolo d'Italia e i partigiani l'avevano ammazzato anche se non aveva mai fatto del male a nessuno. Arnaldo aveva quattordici anni quel 29 aprile 1945. Uscì lui di casa a cercare il babbo, che non era ancora tornato, e lo trovò morto, con una donna che gli pisciava sopra e rideva. Eppure non ho mai sentito da Arnaldo una parola di odio. Era un uomo di destra ma soprattutto un uomo libero. Aveva seguito, come cronista, le indagini sulla strage di piazza Fontana e mi aveva confessato: «La presa d'atto che le istituzioni ci avevano mentito fu per noi giornalisti uno choc». Eravamo cresciuti tutti con i film americani, buoni da una parte e cattivi dall'altra, e la polizia era sempre i buoni.

E così si cominciò a dubitare, a fare controinchieste, controinformazione. E d'accordo c'era una ragione. E però presto si finì con il dubitare di tutto, anzi non con il dubitare ma con l'essere certi che ogni versione ufficiale fosse una balla per nascondere altro. Il gusto inerte del complottismo contagiò la quasi totalità dei giornalisti.

Il danno peggiore fu poi prodotto quando a questa diffidenza si sommò l'ideologia. I giornalisti di sinistra si sentirono innanzitutto di sinistra, e poi giornalisti. Al servizio non dell'informazione, ma della Causa. E i giornalisti non di sinistra - non dico tutti, ma insomma quasi - fecero finta di esserlo, di sinistra, perché quella era l'onda, quello era il vento, quello era quasi certamente anche il futuro, per cui conveniva accodarsi, magari per garantirsi una sorta di medaglia da antemarcia quando sarebbe stato preso il Palazzo d'Inverno.

Cominciarono così i titoli sulle «sedicenti Brigate Rosse». Sedicente vuol dire: che sostiene di essere ciò che non è. Quindi le Brigate Rosse non erano rosse, scrivevano tutti i giornali, compresi quelli della borghesia. Erano fascisti travestiti. Erano poliziotti mascherati. Erano «una favola per bambini scemi o insonnoliti», come scrisse Giorgio Bocca che poi fu uno dei pochissimi a riconoscere di avere sbagliato e a chiedere scusa.

Uno dei momenti in cui la controinformazione raggiunse uno dei suoi punti più alti, o meglio più bassi, fu la morte di Giangiacomo Feltrinelli.

Nato il 19 giugno del 1926, Giangiacomo, marchese di Gargnano, era il discendente di una delle famiglie più ricche d'Italia, i Feltrinelli appunto, cognome che viene da Feltre in provincia di Belluno, dove il capostipite, Guido, era un commerciante di legname. Il padre di Giangiacomo, Carlo, negli anni Venti e Trenta era stato uno degli imprenditori più potenti del Paese: presidente del Credito Italiano, dell'Edison, della Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali, e ovviamente della Feltrinelli Legnami, capofila nel commercio con l'Unione Sovietica. Era morto nel 1935. Sua moglie, Giovanna Elisa Gianzana detta Giannalisa, madre di Giangiacomo, nel 1940 si risposò con Luigi Barzini junior, famoso inviato del Corriere della Sera. E su quel matrimonio in seconde nozze Indro Montanelli fece un sublime racconto che, a suo dire, diceva molto su che cosa fu la dittatura all'italiana. Eccolo:

«Il giorno prima del matrimonio, al quale erano invitati tutti i pezzi grossi del fascismo, Barzini incontrò l'ambasciatore inglese in Italia e a un certo punto, per civetteria, gli disse: Guardate che io so che il nostro ministero degli Esteri ha la chiave per decrittare i vostri telegrammi in codice. L'ambasciatore, per verificare se quella confidenza di Barzini fosse vera o una millanteria, fece una cosa molto semplice: inviò un telegramma a Londra scrivendo, in cifra, il noto giornalista italiano Luigi Barzini mi informa che l'ufficio di spionaggio italiano ha la chiave per decrittare i nostri messaggi. Siccome era vero, il telegramma fu immediatamente decifrato e si venne a sapere della soffiata di Barzini. Il quale, appena arrivato a Milano dopo la cerimonia nuziale, trovò alla stazione due tipi in impermeabile che lo portarono a San Vittore.

«La prima reazione di Mussolini fu: Plotone di esecuzione. Intervenne allora Aldo Borelli, direttore del Corriere, che mise in mezzo il famoso Arturo Bocchini, capo della polizia, il quale gli consigliò di non immischiarsi perché il Duce era furibondo. Poi intervenne Luigi Barzini senior, il padre. Piano piano Mussolini si ammorbidì e commutò la condanna a morte in trent'anni di galera. Gibò, come noi chiamavano Luigi Barzini junior, era salvo. Però trent'anni... Insomma, alla fine la pena si trasformò in cinque anni di confino. Ma siccome Gibò soffriva ai polmoni, si decise di mandarlo al mare, ad Amalfi, dove la moglie Giannalisa affittò un piano intero dell'Hotel dei Cappuccini, il migliore. E lì rimase, con tanto di yacht, il condannato Barzini: per soli sette mesi, perché poi il confino fu revocato. Questo era il fascismo».

(5 - continua)

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