Nella ricca messe di pubblicazioni e convegni che hanno recentemente ricordato il decennale della morte di Leo Valiani (antifascista, costituente, storico e padre della prima Repubblica) nessun peso si è voluto dare alla voce relativa alla sua militanza nelle fila dello Special Operations Executive britannico dopo l’8 settembre del ’43. Quel presunto pettegolezzo storiografico diviene invece verità storica una volta consultati alcuni documenti immagazzinati presso i Nationals Archives di Londra.
Nel file, siglato HS8/1364/4, è conservata infatti la lettera del 26 luglio 1945 nella quale Valiani intendeva «dichiarare e certificare di aver cessato, a partire da quella data, ogni tipo di rapporto con la sezione numero 1 del Soe e di non aver alcuna pretesa finanziaria o di altro genere, nei confronti di quella organizzazione, sia in Italia che altrove, per quello che riguardava se stesso, i suoi parenti e i suoi amici». Nello stesso incartamento troviamo altre notizie su «Giuseppe Federico», nome di battaglia di Valiani. Alcune di carattere privato, concernenti la sua relazione extramatrimoniale con la messicana Eva Jay, a cui il Soe aveva elargito fino a quel momento un trattamento economico. Altre di «carattere tecnico» secondo le quali Valiani era stato infiltrato dalla Svizzera nell’area di Milano, dopo l’Armistizio, per impegnarsi nella resistenza con un lavoro di natura puramente politica che lo aveva portato a stabilire stretti rapporti con il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, della cui attività aveva tenuto al corrente il Soe, prima e dopo essere divenuto il leader del Partito d’Azione attivo nella città lombarda.
Le note contenute nell’incartamento continuavano affermando che Valiani aveva raggiunto l’Inghilterra dal Messico, via Usa, nel 1943, «grazie ad uno speciale accordo con il nostro quartier generale». Dopo quella data, la vera identità di «Giuseppe Federico» era rimasta sconosciuta in Gran Bretagna, avendo il Soe adottato la precauzione di farlo passare per un militare inglese reduce dall’Africa settentrionale e di evitare di utilizzarne il vero nome in tutti i rapporti con l’amministrazione civile e militare inglese che riguardavano la sua persona. Altri documenti del Soe (WO, 208/4544 e HS 7/58) parlavano esplicitamente di Valiani come di «un nostro collaboratore che ha fatto un buon lavoro con il comitato di liberazione di Milano», sottolineando che la sua attività è stata per noi di «valore inestimabile». Questa frase è forse capace di gettare nuova luce sulla «pista inglese» relativa all’esecuzione sommaria di Mussolini, avvenuta il 28 aprile del 1945, quando Valiani rivestiva il duplice ruolo di responsabile del Pda nel Cnlai e di agente di quella branca dell’Intelligence, soprannominata non casualmente «la muta dei mastini di Downing Street», specializzata in attività di sabotaggio e di assassinio politico.
Commentando il provvedimento di procedere all’eliminazione del Duce, Valiani avrebbe scritto nelle sue memorie (Tutte le strade conducono a Roma, Il Mulino), che quella decisione era stata presa su suo impulso e su quello di Sandro Pertini. Respingendo l’imperativa richiesta degli americani che volevano la consegna di Mussolini, i due capi della resistenza avevano voluto mettere il comando statunitense «dinnanzi al fatto compiuto», sostenendo che «il dittatore, dopo essersi rifiutato di consegnarsi il giorno dell’insurrezione di Milano, si era posto fuori della legge». Una giustificazione davvero inconsistente, dal punto di vista giuridico, che ci spinge a ipotizzare, sul piano naturalmente di una nostra convinzione morale, che ogni altra considerazione, politica o umanitaria avesse dovuto cedere, in quel momento, alla ragion di Stato dettata da Londra.
Nonostante le sue dimissioni formali, dopo il luglio del 1945 Valiani non recise completamente, forse, i suoi contatti con il Soe. Nel fascicolo personale dell’organizzazione intestato a suo nome (HS971516/1), è conservata una comunicazione nella quale uno dei responsabili del servizio valutava la possibilità di mantenere un rapporto con l’agente «Giuseppe Federico» anche nel dopoguerra, facendo presente tuttavia che «ogni contatto con lui deve essere molto discreto, perché nella sua attuale posizione all’interno del Pda, Valiani intende evitare nel modo più assoluto che il suo legame con gli interessi inglesi possa essere reso manifesto». Se quella eventualità si sia avverata non è dato sapere. L’unico dato certo in nostro possesso è che, ancora ai primi d’agosto del 1945, Valiani riceveva, grazie ai buoni uffici del Soe, un lasciapassare per raggiungere Londra (impossibile da ottenere, allora, per un comune cittadino italiano), in considerazione della «sua eminente qualifica di giornalista italiano».
Una qualifica della quale, fino a quel momento, nessuno onestamente aveva ancora sentito parlare. Il tempo in cui Leo Weiczen, alias Leo Valiani, alias «Giuseppe Federico» sarebbe divenuto una «grande firma» della stampa italiana era infatti ancora molto lontano.eugeniodirienzo@tiscali.it
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