Cronache

Maestro di libertà non scelse mai la strada più facile

Una vita dedicata all'arte e alla lotta ai pregiudizi di sinistra

Maestro di libertà non scelse mai la strada più facile

Era d'aprile, due mesi e nove giorni fa. Il corpo stanco sulla sedia a rotelle, con il Senato che sembra un teatro, le mani si muovono a fatica e la voce non c'è più, solo gli occhi spaziano: vivi, curiosi, commossi. L'applauso è lungo e lui quasi non ci crede e un po' ne ha paura, perché il suo animo irrequieto sta trovando pace. Ha novantasei anni e sorella morte lo sta aspettando. L'appuntamento è per il 15 di giugno. Non c'è stato modo di rinviarlo.

Franco Zeffirelli non amava scendere a patti con la sorte, perché il destino se lo è disegnato da solo, camminando controvento, come figlio di nessuno, randagio, fuori dal branco. È l'avventura di chi nasce senza schiatta e ogni santo giorno deve firmare la sua vita, per riconoscersi. Tutto comincia con il cognome, un pezzo unico, inimitabile. Non ci sono altri Zeffirelli. C'è solo lui. È l'invenzione di una madre che non vuole sulla pelle di suo figlio quelle due lettere: N.N. Nomen nescio. Alaide Garosi era una sarta, con un marito in fin di vita, tre figlie e uno in arrivo. L'ultimo non è di suo marito. «Mia madre tenne testa a una città intera, tutti lo sapevano: il bimbo nel suo grembo non poteva essere del marito, che si stava spegnendo in sanatorio. Seguì il feretro con il pancione, vedova incinta di un altro uomo. Si può solo immaginare lo scandalo». È il 1923. Bisogna registrarlo all'anagrafe. L'iniziale del cognome viene scelta a sorte. Quel giorno a Firenze è la zeta. Alaide ha in testa un'aria dell'Idomeneo di Mozart. La canticchia: «Solitudini amiche, aure amorose, zeffiretti lusinghieri». È la storia di una passione impossibile e di un messaggio d'amore affidato ai venti. Gian Franco avrà il cognome di zeffiro. Sarà figlio del vento che soffia da ponente. Solo che il burocrate all'anagrafe non conosce Mozart e il vento leggero perde le due «t» e acquista due «l». Zeffiretti diventa Zeffirelli. Il padre è un commerciante di stoffe. Si chiama Ottorino Corsi e ci metterà 19 anni per riconoscere suo figlio. Se si va a rincorrere, a ritroso, la genealogia della famiglia Corsi ci si imbatte in un altro figlio illegittimo con una certa vocazione a muoversi all'incrocio dei venti. Si chiama Leonardo e come il padre di Zeffirelli viene da Vinci.

Certe vite si riconoscono dal principio. È un segno, che ti porti appresso, come un'orma sul carattere. È qualcosa di tuo che ti distingue dagli altri e ti rende difficile metterti in fila, seguire la strada più facile, quella dove vanno tutti. Il prezzo da pagare è la «solitudine amica», quel non riconoscersi nel «noi», in una famiglia, fino a rinnegare tutti, perfino chi ti prende a modello. La tua non appartenenza diventa contraddizione. È il sentiero che sceglie Zeffirelli. Nessuno può mettere in discussione il suo antifascismo. Non è uno da camicia nera. A vent'anni sale sui monti dell'Appennino per combattere fascisti e nazisti. È partigiano, ma del colore sbagliato. A convincerlo è un professore di diritto romano. È Giorgio La Pira, che poi diventerà il leggendario sindaco di Firenze. «Fu lui a insegnarmi che i totalitarismi sono tutti uguali: neri, bruni o rossi si macchiano dello stesso peccato contro l'individuo». È una lezione di libertà. Non ti fidare di chi in nome della razza, della nazione, dello Stato, della classe è pronto a sacrificare l'umano. Non credere a chi promette il paradiso in terra. Non lasciarti ingannare da chi non ti vuole uguale ma identico agli altri, come un clone. Non scambiare la tua libertà solo per non avere più paura. Zeffirelli in montagna ha conosciuto i «giusti» senza pietà. «Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che usavano come latrina». È per questo che dopo la guerra si ritrova dalla parte sbagliata. Non sta come molti amici e colleghi nelle casematte del Pci. «Mi odiavano perché non mi accodavo. Addirittura perché credo in Dio. La mia colpa è aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell'imperatore». È quello che alla fine lo divide anche da Visconti, suo maestro e mai rinnegato amore. «Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di essere nato in una delle famiglie più aristocratiche».

Il guaio di Zeffirelli è che non puoi fargli indossare una maschera e un ruolo. Non puoi battezzarlo. È cattolico e non nasconde, quando non era affatto facile, la sua omosessualità. Solo che per lui non è una bandiera. «L'omosessuale non è uno che sculetta e si trucca. È la Grecia, è Roma. È una virilità creativa». Zeffirelli è un regista di una grandezza sublime e fa qualcosa che per molti intellettuali è più di una bestemmia: candidarsi con Berlusconi. È il 1994 e viene eletto al Senato. Si fa addirittura un'altra legislatura. Ce ne è abbastanza per metterlo in croce. Zeffirelli sogna una rivoluzione liberale in un Paese dove i liberali non hanno cittadinanza. È il sogno, magari ingenuo, di chi non vuole morire schiacciato tra il rosso e il nero.

È per questo che se c'è un personaggio che Zeffirelli ha amato è senza dubbio Mercuzio. Mercuzio l'amico di Romeo, che muore per l'eterna faida tra Montecchi e Capuleti. Mercuzio dove Shakespeare rifugia le proprie illusioni. Mercuzio innamorato e ossessionato da Mab, la regina che tormenta l'animo degli umani per spingerli a cercare il sogno e la bellezza. Zeffirelli come Mercuzio cercava disperatamente la libertà e ora può recitare il monologo finale: «Maledette le vostre due famiglie.

Avete fatto di me carne per vermi».

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