Economia

Torna l'incubo Argentina sulla crescita

Le Borse temono il crac, crolla il peso. E Trump «flirta» con Londra sui dazi cinesi

Torna l'incubo Argentina sulla crescita

Crisi? Di più: qualcosa che ha il retrogusto del crac, di quel default che l'Argentina ha già vissuto sulla propria pelle all'inizio del nuovo secolo. Un incubo che rischia di materializzarsi dopo che domenica scorsa il Paese ha voltato le spalle al presidente Mauricio Macri, decretando la vittoria alle primarie presidenziali del candidato peronista Alberto Fernandez, che corre in ticket con l'ex inquilina della Casa Rosada, Cristina Fernandez Kirchner, questa volta con il ruolo di suo vice. In ottobre, quando si farà sul serio, c'è il rischio che si torni a ballare il tango del sovranismo e a rigettare le politiche di austerità. La prospettiva di una rottamazione dei principi liberisti di Macri, una sorta di garanzia riformista in base alla quale Buenos Aires è riuscita a ottenere aiuti dal Fondo monetario internazionale per 60 miliardi di dollari malgrado il Pil in contrazione e un'inflazione al 50%, ha terrorizzato ieri i mercati. L'indice Merval della Borsa ha subito una picchiata fino al 12%, il peggior crollo dal 2008, cancellando il rialzo di circa l'8% con cui nell'ultima seduta della scorsa settimana gli investitori avevano scommesso sull'affermazione di Macri. Ma sono soprattutto i Credit default swap (CdS) il vero termometro della paura: le possibilità di una bancarotta in cinque anni sono schizzate al 72% contro il 49% di venerdì scorso. E poi c'è il versante valutario, dove il peso è crollato sotto il peso del dollaro perdendo oltre il 20% del proprio valore. Il ciclopico debito pubblico è così destinato a lievitare.

Il paradosso nella vicenda è che parte dei problemi argentini sono stati creati da chi aveva più interceduto presso l'Fmi per dare respiro finanziario a Buonos Aires. Ovvero Donald Trump, amico della famiglia Macri per il condiviso interesse negli appalti delle grandi opere. Le crescenti ostilità fra Usa e Cina sul commercio, con le ripercussioni sulla crescita globale e sui mercati, hanno reso ancor più vulnerabile l'Argentina. È la fine che rischiano di fare anche altri Stati latino-americani come Brasile e Colombia e altri Paese emergenti. D'altra parte, la reazione dei mercati di fronte all'intensificarsi del braccio di ferro fra Washington e Pechino porta a sospendere il carry trade, la caccia ai rendimenti più allettanti ma anche più a rischio. Anche perché appare assai improbabile che il tycoon, ieri ancora a colloquio telefonico con un possibile alleato come il premier inglese Boris Johnson, deponga presto le armi nella trade war con Pechino nonostante l'ultimo avvertimento arrivato da Goldman Sachs attraverso una revisione al ribasso delle stime di crescita dell'America nel quarto trimestre (all'1,8%). Un accordo entro l'anno non è realisticamente ipotizzabile. Il Dragone, infatti, sta rispondendo colpo su colpo al rivale a stelle e strisce: ieri la People's Bank of China ha impresso un'altra svalutazione allo yuan, tornato oltre quota 7 sul dollaro.

Le Borse, anche ieri in negativo (-0,30% Milano, con i titoli più esposti verso l'Argentina come Tenaris e Saipem, scesi rispettivamente del 3,2 e del 2,4%), risentono anche delle tensioni geopolitiche legate soprattutto agli scontri di Hong Kong e della crisi politica in Italia, mentre crescono i timori che neppure i futuri tagli dei tassi da parte delle banche centrali riusciranno a evitare una recessione globale.

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