La guerra fredda del dottor Zivago

Feltrinelli tenne in «affido» i soldi dei diritti. Erano della vedova dello scrittore, ma li prese il Kgb

Il 23 novembre 1957, con un party all’Hotel Continental di Milano, Giangiacomo Feltrinelli presentò il suo primo e più grande successo: la pubblicazione de Il dottor Zivago di Boris Pasternak in anteprima mondiale. Un colpo storico per la casa editrice fondata solo nel ’55 e guidata da un 31enne sia pure con enormi risorse finanziarie. Ma se Feltrinelli era raggiante, Boris Pasternak doveva essere incavolatissimo. Almeno «ufficialmente». Aveva chiesto più volte di bloccare la stampa per apportare «necessarie modifiche». Ma senza nulla ottenere. In realtà festeggiò anche lui quella sera nell’appartamento di vicolo Potapovskij a Mosca. Perché le richieste di restituzione erano una messa in scena per calmare le autorità sovietiche e far credere che le cose erano sfuggite di mano. L’accordo «privato» con Feltrinelli prevedeva infatti di tirare dritto.
Per reggere la coda a Pasternak sino in fondo, il libro uscì corredato dalla premessa più surreale mai vista. Dove stava scritto che, nonostante la buona volontà, alla Feltrinelli si sono «trovati nell’impossibilità di accedere al desiderio dell’autore in quanto il libro era già in avanzato stato di lavorazione e pronto per la stampa anche in altri Paesi, e non ci sono d’altra parte pervenute in tempo le modifiche che l’autore intenderebbe apportarvi». Perciò non restava che pubblicarlo, confortati dalla convinzione che «questa edizione del Dottor Zivago torni non solo ad onore dell’autore, ma della letteratura stessa, alla quale egli appartiene».
Se il quadro storico è decisamente mutato e la premessa è diventata inutile, nondimeno è un peccato che questa chicca culturale della Guerra Fredda sia sparita dall’edizione vintage del romanzo, pubblicata l’anno scorso da Feltrinelli per i 50 anni dalla fondazione: al suo posto c’è l’elenco dei personaggi principali del libro.
Ma passando ad aspetti più salienti: com’è che il manoscritto finì nelle mani d’un editore italiano comunista e che stava solo muovendo i primi passi? Fu Sergio D’Angelo, giornalista romano, oggi 84enne, a trafugarlo a Berlino e consegnarlo all’editore. Allora redattore di Radio Mosca e consulente di Feltrinelli, D’Angelo ricostruisce la vicenda in un bel saggio memorialistico, Il caso Pasternak (Bietti, pagg. 264, euro 18), di prossima uscita anche negli Stati Uniti e in Russia.
Nella sede dell’emittente radiofonica sovietica - il cui compito era trasmettere propaganda filocomunista in Italia - D’Angelo lesse una nota in cui si dava per imminente l’uscita de Il dottor Zivago. L’annuncio era solo uno dei tanti segnali contraddittori dell’epoca kruscioviana, periodo che, parafrasando Pasternak, somigliava a un marzo moscovita, con ingannevoli giornate tiepide seguite da improvvise nevicate. Come spiegò lo stesso scrittore: «In Urss il romanzo non uscirà». Anche se aveva passato il vaglio della censura un’opera come Non di solo pane di Vladimir Dudincev, critica nei confronti della burocrazia del regime, Pasternak non nutriva speranze. Ma voleva che il libro vedesse la luce almeno all’estero, in particolare in Francia e Inghilterra. E ricevuta da D’Angelo la rassicurazione che Feltrinelli l’avrebbe trasmesso anche in quei Paesi, consegnò al giornalista il manoscritto con l’auspicio «Che faccia il giro del mondo». Seguito da un ironico invito: «Fin d’ora, voi siete invitati alla mia fucilazione».
Era il 20 maggio 1956. Nikita Krusciov aveva appena denunciato nel XX Congresso il regime di Stalin ma entro pochi mesi avrebbe freddato ogni speranza di cambiamento invadendo l’Ungheria. Forse non avrebbe eliminato Pasternak come Stalin fece con Osip Mandel’stam e Isaac Babel’. Certo gli avrebbe reso dura la vita.
Ma che cosa conteneva di tanto virulento il libro, da risultare persino più indigesto di Dudincev? Non resta che leggerlo. Nelle 710 pagine dell’edizione originale, le tirate contro il comunismo si sprecano. In una terza persona più autobiografica della prima, Pasternak racconta la storia d’amore tra il medico e poeta Jurij Zivago e l’insegnante Lara, dalla rivoluzione del 1905 fino alla seconda guerra mondiale, passando per l’Ottobre 1917 e la Grande Guerra. Eventi che travolgono i protagonisti facendo turbinare i loro destini tra Mosca e la Siberia in un crescendo che rasenta la follia. Una trama epica che purtroppo diventa la vita quotidiana d’ogni russo in quel periodo, anche se talvolta la penna di Pasternak cade da vette assolute a patetiche trovate da fogliettone ottocentesco.
In un primo tempo le parole della propaganda rossa suonano come musica alle orecchie del sensibile Zivago, ma presto si accorge che sono lettera morta e sviluppa una viscerale avversione per i bolscevichi, nuova incarnazione degli opricnik, gli scherani di Ivan il Terribile. Se aggiungiamo i continui richiami allo spiritualismo cristiano, al primato dell’individuo sulla massa, e la presenza d’un capo partigiano cocainomane vestito con pelli di cane, non è difficile capire perché il romanzo, vera summa filosofico-politica dell’universo pasternakiano, fosse considerato così dannoso. Altro che «necessarie modifiche»: il manoscritto non sarebbe mai tornato in Italia e bene fece Feltrinelli a resistere alle inevitabili pressioni del Pci.
Andò peggio all’autore. Come racconta D’Angelo, scavando con onestà e dovizia documentale ogni aspetto della vicenda, Pasternak, a causa dello scandalo, fu insultato, espulso dall’Unione degli scrittori, perse lo stipendio e si trovò nell’impossibilità di ricevere dall’estero i proventi dei diritti. Compresi quelli del premio Nobel di cui fu insignito nel ’58 e che dovette rifiutare. D’Angelo riuscì a rimediare «in nero» convincendo Feltrinelli a costituire un fondo bancario in Liechtenstein. E dopo la morte dello scrittore, avvenuta nel 1960 all’età di 70 anni, per un cancro che s’aggiunse ad annosi problemi di cuore, riuscì a far avere a Olga Ivinskaja, la Lara di Pasternak, ancora una parte della somma. Ma il Kgb mise le mani sulla valigia dei rubli e nessuno poté risparmiare alla poveretta, già deportata ai tempi di Stalin, una condanna a otto anni di gulag; un tremendo giro di vite tra romanzo e realtà.
Potrebbe funzionare come conclusione del «caso Pasternak», visto dall’Italia, un episodio esemplificativo che troviamo nel libro di D’Angelo. 5 marzo 1969: Breznev aveva sostituito Krusciov imitandolo nella repressione di un Paese satellite, non più l’Ungheria ma questa volta la Cecoslovacchia. Qualche fermento covava ancora nella Praga «normalizzata», tanto che Zdenek Frybort, rappresentante della casa editrice Cesky Spisovatel, andò da Feltrinelli per chiedere i diritti di tradurre in boemo Il dottor Zivago, ormai bestseller internazionale trainato dal kolossal hollywoodiano di David Lean. «Quando la smetterete con tutte le vostre stupidaggini?», chiese brutalmente l’editore.

E lo diffidò dal pubblicare finanche un’edizione clandestina. Ormai pensava solo alla «minaccia fascista mondiale», e stava per saltare in aria nel tentativo di togliere con la dinamite la luce a un quartiere di Milano, e aveva già perso il proprio lume.

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