A Pompei c'è una signora che ama gli animali. La chiamano l'«angelo dei cani». Ha i capelli corti e sempre la sigaretta in bocca. Che posa solo per accarezzare i suoi amici a 4 zampe. Cani che però non si trovano nel giardino di casa sua, bensì nel Parco archeologico di Pompei dove la signore svolge la mansione di custode addetta all'accoglienza. È una donna affabile che, se le sei simpatico, ti racconta un sacco di fatterielli. Io - forte del mio indiscutibile charme - sono entrato facilmente nelle sue grazie e così l'«angelo dei cani» ha subito dispiegato le ali, prendendo a volare alto.
«Attualmente qui nel sito i cani sono una decina - racconta la custode -. A volte ne troviamo altri legati ai cancelli, abbandonati dai loro padroni. Spesso combatto con i colleghi per non mandarli via. Io, per quel che posso, li curo e li sfamo. Anche il Colosseo è pieno di gatti, perché qui a Pompei non possono starci i cani?». Forse perché i due milioni di turisti che ogni anno visitano l'antica Pompei si aspettano di ammirare ciò che resta di una città sepolta dalla cenere e non ciò che resta di un branco di cani «archeologici» residenti in pianta stabile (pardon, in cuccia stabile) nella location storico-artistica tra le più suggestiva al mondo.
«Ma questi sono cani buoni, che non fanno male a nessuno - li difende la custode dal cuore animalista -. Stanno lì fermi, non abbaiano nemmeno. Sono molto più civili di tanti esseri umani». Ma, a differenza degli esseri umani (Suarez a parte, e per conferma chiedere a Chiellini ndr) potrebbero mordere. «Ma non è successo quasi mai...». Come sarebbe «quasi mai»? «In effetti - confessa l'«angelo dei cani» - qualche mozzico c'è stato...». I più a rischio sono i bambini, i più ingenui nell'accarezzare questi cani apparentemente immobili come statue (non a caso ci troviamo in un sito archeologico) ma a volte improvvisamente incazzosi. Nel nostro tour tra gli scavi abbiamo incrociato ben sei di «guardiani bestiali» (a «organigramma» completo sarebbero dieci), a fronte di appena due custodi umani (che a organigramma completo sarebbero 168. Morale: a Pompei i cani sono molto meno assenteisti dei custodi, 166 dei quali - durante il nostro sopralluogo di lunedì scorso - erano evidentemente in ben altre faccende affeccendati.
Alla biglietteria una cortese signorina ci consegna un opuscolo, «Piccola guida agli scavi di Pompei». Leggiamo al «punto 6»: «Si prega di depositare borse e zaini presso il guardaroba». Falso visto che noi siamo entrati con un borsone e lo abbiamo pure riempito di reperti. Attorno a noi centinaia di turisti, anch'essi «armati» di zaini, speriamo solo pieni di panini e bottigliette d'acqua.
Tenetevi forte e leggete il «punto 8»: «Non sono ammessi animali». Buttandola sul ridere, si potrebbe rispondere: «Forse perché gli animali sono già dentro».
A sancire la tragicomicità della situazione un cartello esposto tra i ruderi: «Per motivi di sicurezza si invitano i signori visitatori ad evitare qualsiasi forma di avvicinamento o contatto con i cani presenti sul sito». Insomma, la presenza di un branco di cani randagi è considerata a Pompei una realtà ineluttabile.
Intanto la giornata volge al termine, ci incamminiamo verso l'uscita. L'«angelo dei cani» è lì al suo posto, con una mano tiene la sigaretta e con l'altra accarezza uno dei suoi fedeli amici a 4 zampe.
Salutiamo la signora che con noi si è mostrata tanto gentile e le chiediamo dove siano i servizi igienici. «Qui dietro», risponde lei. Apriamo la porta del bagno e, bello steso davanti al vaso, c'è un bel cane bianco che ronfa beatamente. Espletare le funzioni fisiologiche in quelle condizioni risulta assai complesso, anche perché non vorremmo mai disturbare quel sonno bestiale. «Ma c'è un cane davanti al wc», facciamo timidamente notare alla custode. E lei: «Sì, è Fiocco, il mio preferito».
Un signore di una certa età si avvicina e mi fa: «Ma le sembra giusto che io non possa fare la pipì perché in bagno c'è Fiocco? E poi lei si fiderebbe ad abbassarsi i pantaloni davanti a un cane in fase di dormiveglia». L'istinto sarebbe quello di dargli ragione. Ma se poi l'«angelo dei cani» mi sbatte all'inferno? O, peggio, in un canile?
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