Del nuovo premier che cosa pensa? «Matthaeus Renzi est homo novus. Quare difficillimum est quae velit praevidere. È un uomo nuovo. Per la qual cosa è difficilissimo prevedere che cosa voglia». Ma questo Paese si salverà? «Itali moribundi sunt. Gli italiani sono moribondi. Anzi, corregga. Itali perituri sunt. Meglio». È dura, senza l'ausilio di un traduttore simultaneo, intervistare il professor Victorius Ciarrocchi, all'anagrafe Vittorio, nato 75 anni fa a Pesaro e qui residente, insigne latinista, già docente nei licei classici di Pesaro e Fano e allo scientifico di Senigallia. Per fortuna sopperisce il medesimo Ciarrocchi, che, collaborando da molto tempo al Resto del Carlino, ben conosce l'asinaggine media dei giornalisti.
Ancora più dura è pretendere che l'insegnante in pensione - due lauree, giurisprudenza e filosofia, e una terza in medicina conseguita per cultura personale - non si esprima ogni due per tre in quella che considera la lingua più viva del pianeta, anche se un po' acciaccata: «Deus latinam linguam custodiat». Quasi una lingua madre, per lui che la usa tutti i giorni. «Ecco qua, legga: ho appena risposto, ovviamente in latino, a Jean, un parigino che lavora per la Sncf, le ferrovie francesi, il quale si firma Petronio». Oggetto della mail: «Cur falsa, Petroni, de me scribis?». «Perché, o Petronio, scrivi di me cose false? Sa, mi ha accusato di voler espellere alcuni membri dal gruppo. Assurdo». Già, come sarà venuto in mente a Petronio che Victorius intenda assottigliare un ristrettissimo club comprendente appena 311 iscritti su tutto l'orbe terracqueo?
Si chiama Grex latine loquentium, «alla lettera, gruppo dei parlanti in latino, in realtà scriventi». L'ha fondato nel 1996 il polacco Konrad Kokoszkiewicz, alias Conradus, e da allora Ciarrocchi ha totalizzato oltre 6.000 messaggi di posta elettronica, nel senso che li ha spediti o che ha risposto a chi lo interpellava. Sempre e solo in lingua latina, condicio sine qua non per continuare a far parte del gruppo. «Il fatto è che a scrivere siamo meno di una dozzina. Gli altri 300 si limitano a leggere. Cioè si abbeverano alla nostra corrispondenza senza neppure ringraziare», brontola Victorius, il più attivo della ristretta compagnia, in cui figurano il segretario del Parlamento cileno, due docenti di musica e uno studente di Tokyo e un professore che insegna l'inglese a Hong Kong.
Ciarrocchi non si limita a colloquiare tutti i giorni in latino con il mondo intero. Lo gira, il mondo, per diffondere la lingua viva fra gli incolti che ancora si ostinano a considerarla morta. Per seminari di studi, congressi e conferenze è già stato tre volte negli Stati Uniti, due a Lexington («organizzava Terence Tunberg, ordinario di lingua e letteratura latina all'Università del Kentucky, uno dei più grandi latinisti del nostro tempo») e una vicino a Seattle («ci sono più amanti della lingua di Cicerone fra la costa dell'Atlantico e quella del Pacifico che non in Italia»), e un'altra volta a Porto Alegre, in Brasile, che per una persona anziana terrorizzata dall'aeroplanum è un bel supplizio. E poi 9 volte in Belgio, 5 in Germania, 4 in Svizzera, 3 in Spagna, 3 in Austria. E ancora a Praga, a Malta e persino a Jyväskylä, 270 chilometri a nord di Helsinki: «Ma lo sa che in Finlandia, dove non arrivò mai un legionario romano, c'è una radio, Nuntii Latini, che trasmette solo in latino? In questi giorni sta seguendo la crisi in urbe principali Ucrainae. Mica come la Radio Vaticana, che in latino trasmette solo messa, lodi, rosario, vespri e compieta».
Lingua batte dove il dente duole. Ciarrocchi figurava con altri 10 capoccioni di varie nazionalità nel Collegium libellis conficiendis (il comitato direttivo) di Latinitas, rivista fondata nel 1953, edita dalla Santa Sede. Con sua grande sorpresa, di recente lo studioso pesarese s'è visto arrivare a casa per posta un numero doppio nel quale era stato depennato non soltanto il suo nome ma anche quello del moderator, il direttore, Cletus Pavanetto, al secolo don Anacleto, sacerdote salesiano, rimosso dall'incarico per far posto al professor Ivano Dionigi, presidente della Pontificia Academia Latinitatis, cui è stata affidata la cura della pubblicazione, nel frattempo trasformata da quadrimestrale in semestrale. «Oh miram urbanitatem! Che educazione! Estromesso a mia insaputa. Nessuno mi ha comunicato nulla».
Non posso crederci.
«È così. L'ho scoperto quando il portalettere mi ha recapitato il fascicolo. Eh sì, perché negli ultimi 30 anni ho sempre pagato anche l'abbonamento a Latinitas, sarò poco fesso?».
Com'è potuto accadere?
«Vado per intuizione. Il nuovo direttore, che è anche rettore dell'Università di Bologna, mi detesta. Così in Latinitas ha preferito coinvolgere Massimo Cacciari e Luciano Canfora, due atei. Sul sito della Città del Vaticano leggo che la rivista è redatta completamente in lingua latina. Peccato che il professor Dionigi abbia esordito con un editoriale lungo 5 pagine scritto in italiano, a parte le prime 14 righe, che erano, bontà sua, in latino. Su 222 pagine, ne ho trovate solo 23 nell'antica lingua. Tutto il resto in italiano e francese, con citazioni persino in olandese. Aspetto impaziente l'inglese».
Ma perché il nuovo direttore di Latinitas ce l'avrebbe con lei?
«Ovunque vada nel mondo, non manco mai di ricordare che il 22 luglio 1998, sulle pagine del Resto del Carlino, il professor Dionigi, allora ordinario di letteratura latina, scriveva che il latino è lingua morta. E si compiaceva, con Thomas Stearns Eliot, del fatto che fosse irrimediabilmente e fortunatamente morta. Parole non ci appulcro, direbbe Dante: abbellirebbero solo lo scempio».
Andiamo bene.
«Brava persona, Papa Francesco. Ma basta ascoltare come recita l'Angelus per capire che il latino non lo sa. Il suo predecessore Benedetto XVI sì che lo conosceva bene. Ne ho avuto conferma quando nel 2005 mi ricevette in udienza con il direttore e gli altri curatori di Latinitas».
La Chiesa non è più l'ultimo baluardo del latino?
«Il 90 per cento dei preti usciti dai seminari dopo il Concilio l'ha studiato poco e male. Dice Vittorio Messori che Paolo VI pianse firmando la riforma liturgica del 1969 che aboliva il latino. Lacrime giustificate, visti i risultati. L'invocazione Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi tradotta in Ecco l'Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo è una bestemmia linguistica e teologica. Cristo non è venuto a togliere i peccati, ma a perdonarli. Il verbo tollit in quel contesto significa prende su di sé».
Per quanti anni ha lavorato negli istituti superiori?
«Non molti: 24. Le materie che insegnavo, storia e filosofia, erano il principale bersaglio della contestazione studentesca. Passavo per fascista perché chiedevo la giustificazione agli assenti. Pretendevano che parlassi della guerra nel Vietnam anziché di Napoleone».
Perché non insegnava latino?
«Delle tre lauree conseguite, mi mancava quella giusta per farlo. E poi io mi considero solo un latinitatis cultor voluptuarius, un dilettante di lingua latina».
Com'è nata questa passione?
«Leggendo sull'Osservatore Romano, nell'ottobre 1965, che la messa sarebbe stata celebrata nelle lingue moderne. Fu una coltellata alla schiena. Il giorno stesso mi rimisi a studiare il latino».
Perché leggeva L'Osservatore ?
«Perché Leonid Breznev al Cremlino faceva la stessa cosa. Qui a Pesaro ne arrivavano due copie: quella per la curia e la mia. Purtroppo oggi abbiamo un arcivescovo, Piero Coccia, che non ama il latino. Ha autorizzato la celebrazione della messa tridentina nel santuario della Beata Vergine del Carmine solo l'ultima domenica al mese. Bizzarro, no?».
Studia ancora il latino?
«Almeno un paio d'ore al giorno. Grammatica, sintassi e lettura dei classici. I miei prediletti sono Seneca, Cicerone, Virgilio e Lucrezio. Del primo stavo leggendo, mentre aspettavo che lei arrivasse, una frase tratta dalle Lettere a Lucilio: Quaere quid scribas, non quemadmodum. Bada soprattutto alla questione che tratti, non al modo in cui la esponi. Lo consideri un viatico».
Se il latino è tanto importante, perché non s'insegna ai bambini?
«La domanda le fa onore. Perché è odiato. Domina tuttora la concezione che fu espressa, in un articolo sull'Avanti!, da Pietro Nenni: Il latino è la lingua dei signori. Dunque andava abolita».
Noi giornalisti non potremmo raccontare in latino il mondo d'oggi.
«Omnia latine dici possunt. Tutto si può dire in latino. Vuole qualche esempio? Computer: ordinatrum o machina ordinatoria o computatrum. Mail: epistula electronica. Internet: Internexus o Internetum. Facebook: Prosopobiblion».
Un assessore socialista della mia città, volendo zittire un consigliere comunale prolisso, gli fece segno di stringere serrando a intermittenza il pugno: «Per favore, brevi manu».
«Se è per questo, in televisione m'è capitato di sentire di peggio: sine die pronunciato sain dai, all'inglese».
A ben vedere il latino non è mai stato così presente come oggi nelle nostre vite. Siamo qui in attesa dell'Italicum, sperando che il Pil pro capite torni a crescere e che non arrivi l'una tantum sui patrimoni.
«Quando si usa una lingua, è un errore ricorrere a espressioni che non le appartengono. Nei miei articoli in italiano non troverà una sola parola in latino. Così come non scriverei mai weekend. Piuttosto, come proposi a Indro Montanelli, lo tradurrei in vichendo. Ci ho fatto un libro con le mie osservazioni all'allora direttore del Giornale e le sue risposte».
Ha anche polemizzato con Corrado Augias scrivendogli in latino.
«Fatica sprecata. A Repubblica sono irrecuperabili. Eugenio Scalfari nel 2010 scrisse: Deus dementet qui vult pervere. Tre vocaboli su cinque sbagliati. Persino un allievo del ginnasio sa che la frase esatta è quem vult perdere Deus dementat, Dio fa uscire di senno chi vuole perdere. Che sia il caso del fondatore?».
Sullo stesso giornale Beniamino Placido sosteneva che in Italia la lingua di Cicerone è un rimorso, nel senso latino del termine: qualcosa che ti rimorde le viscere e, prima o poi, finisce per venir fuori.
«Non mi parli di Placido. Considerava il latino una lingua morta. E noi, che ci ostiniamo a mantenerla in vita, per lui eravamo gente bisognosa dello psicanalista ».
Il latino è prolisso, poco adatto a quest'epoca di bit, tag, sms, chat, blog, feed, link, tweet.
«Invece è molto più sintetico dell'italiano. Prenda la frase non c'è bisogno di fare prigionieri. In Tacito diventa nihil opus captivis. Tre parole contro sei. Vogliamo stare sull'inglese, che passa per essere la lingua più concisa? The right man on the right place, l'uomo giusto al posto giusto, in latino moderno diventa vir aptus apto loco. Quattro parole contro sette».
Io non me lo vedo Andrea Camilleri che si fuma l'ennesimo nicotianum bacillum.
«Sigaretta si può tradurre anche sigarella o sigarellum oltre che fistula nicotiana. Nel mio libro Varia latinitatis vivae testimonia riporto 600 frasi di latino veramente vivo».
O i tifosi della Juve descritti sui giornali come fautores albati atrati.
«Il latino classico consta di 50.000 vocaboli, mentre il Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia ne comprende 183.000. La povertà lessicale del latino da lei lamentata è la stessa che già rilevarono Lucrezio e Seneca. Se però consideriamo tutta la latinità cristiana, si arriva a Isidoro di Siviglia, morto nel 636, con 92.000 parole. Alle quali se ne sono aggiunte 15.000 nell'età umanistica, fra i secoli XV e XVI, e altre 5.000 fino ai nostri giorni. Ma poi, scusi, Giovannino Guareschi usava solo 1.400 vocaboli e si faceva capire da tutti. Da Boccaccio a Italo Calvino, da Alberto Moravia a Dino Buzzati, non vi è opera che non sia condensabile in base al numero di lemmi utilizzati, che sono 600, 1.200, 1.800 o 2.500, non uno di più».
Quando è in difficoltà con una traduzione a chi chiede aiuto?
«Ai vocabolari, alle sintassi, al Grex latine loquentium. Un tempo mi rivolgevo a padre Celeste Eichenseer, un benedettino che insegnava il latino vivo nell'Università di Saarbrücken, in Germania. Era la mia Cassazione. Purtroppo è scomparso nel 2008».
Come vogliamo salutarci?
«Cura ut valeas. Stammi bene».
Una parola, dopo che mi ha descritto come moribondi l'Italia e gli italiani.
«Cuncta fessa. Tutto è rovinato, tutto è in frantumi. Tacito».
(692. Continua)
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