Cultura e Spettacoli

"Liberazione", la vertigine della domanda sul destino

L’ultimo Márai è ambientato nella Budapest devastata dalla seconda guerra mondiale. La città attende l’esercito russo «liberatore». Ma è davvero lì la salvezza?

"Liberazione", la vertigine della domanda sul destino

Ho finito da poco «Liberazione» di Sándor Márai, l’ultima opera pubblicata dello scrittore ungherese. Dopo «Le braci», il suo primo volume stampato in Italia, quello che l’ha rivelato, ne erano seguiti altri secondo una regola che mi si manifestava via via con evidenza crescente: uno peggio dell’altro. Una discesa inarrestabile. Adelphi li pubblicava a cadenza annuale, puntualmente acquistavo e leggevo, e puntualmente chiudevo scuotendo la testa. Tanto era stata accecante la folgorazione iniziale, tanto più Márai si mostrava lento, pedante, ripetitivo nelle opere successive.

A conoscere la sua vicenda personale si scopre il perché: il capolavoro non fu la sua opera prima. Tuttavia io conosco uno scrittore come un qualunque signor Rossi: mi imbatto in lui, ne ricavo una certa impressione, nel tempo verifico e giudico. E così è successo con il signor Márai. Me l’hanno presentato col botto ma la sua frequentazione deludeva. Un genio incostante, incapace di mantenere le promesse, sempre più faticoso da affrontare. Al quarto libro non ce l’ho più fatta. Dopo un digiuno maraico di cinque anni, prima di Natale ho preso «Liberazione» un po’ per curiosità, un po’ per una faccenda molto più meschina: è più corto degli altri. Se mi avesse lasciato ancora insoddisfatto non avrei perso molto tempo. Non mi sono pentito, anche se non brucia come «Le braci». E’ il romanzo dell’attesa: attesa della liberazione, appunto, nella martoriata Budapest della seconda guerra mondiale. L’attesa unisce certezza e inquietudine: non andrei in stazione ad aspettare una persona se non fossi certo che è partita, tuttavia siccome i treni sono sempre in ritardo non so quando arriverà, e in quali condizioni. L’attesa è una condizione vertiginosa, ed è la condizione di ogni uomo che guarda al proprio destino, e si interroga su quale sarà, e spera con tutto il cuore che sia un destino buono. Il finale di «Liberazione» riflette la personalità dell’autore. Ma la domanda che pone riguarda tutti. Riecheggia una delle riflessioni di Cesare Pavese nel «Mestiere di vivere»: «Qualcuno ci ha promesso qualcosa? E allora, perché attendiamo?». Già, perché?

Sándor Márai
Liberazione Biblioteca Adelphi, 2008
(stefano.

filippi@ilgiornale.it)  

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