ExItaly o Italexit non è più un tabù. La via di uscita dell'Italia dell'euro inizia a prendere forma come ipotesi concreta nella grande finanza internazionale. Non si tratta più quindi di uno scenario sognato da premi Nobel anticonformisti come Joseph Stiglitz, che ha definito la valuta comune come «un tragico errore che minaccia il futuro dell'Europa» o dai partiti antieuropeisti, dalla Lega a Fratelli d'Italia e il M5S, che con Beppe Grillo torna a invocare «un referendum sull'euro subito» perché «gli italiani devono essere informati su costi e benefici» dell'euro e del ritorno alla lira. Comunque la exit strategy esiste e, in modo pragmatico, l'alta finanza fa i conti con l'eventualità.
Tra i primi a parlarne apertamente era stato a inizio settembre Credit Suisse che, pur ritenendo l'ipotesi decisamente remota, limitata a un modesto 1% di possibilità, in un arco di tempo medio-lungo accennava al percorso normativo per arrivare all'addio a Bruxelles. A rompere gli indugi è stata tuttavia, in questi ultimi giorni Mediobanca che, in uno studio riservato ai propri clienti, ha fatto i «conti della serva» dimostrando che l'uscita del Paese dall'area euro porterebbe a un risparmio complessivo di 8 miliardi di euro, una cifra tuttavia destinata ad evaporare velocemente qualora non si prenda una direzione precisa. Con il debito che rischia di andare fuori controllo per il prossimo aumento dei tassi e la stagnazione dominante, la ridenominazione del debito in lire e il ritorno alla sovranità monetaria porterebbe, a giudizio degli esperti di Piazzetta Cuccia, a una sostanziosa svalutazione dei debiti e al «rilancio dell'economia italiana». Con tutti i «se» e i «ma» del caso, l'ipotesi di un'uscita dalla valuta comune diventa ogni giorno più concreta.
Lo stesso Mario Draghi, governatore della Bce, ha addirittura ipotizzato il conto che l'Italia sarebbe tenuta a pagare in caso di Italexit. Per la precisione si tratterebbe di una cifra colossale, 357 miliardi pari al 20% del Pil, dovuta per chiudere il conto Target2, sistema di pagamento interbancario per i pagamenti transfrontalieri nell'Unione europea.
Al di là delle tecnicalità economiche e legali del caso, l'attestazione di Draghi significa che l'euro non è da ritenersi un percorso senza ritorno e che l'ipotesi di uscita non è esclusa neppure dalle principali istituzione finanziare dell'Unione. Meglio quindi iniziare a prendere l'Italexit in seria considerazione e non farsi cogliere impreparati. Insomma, comunque vada, non deve necessariamente essere l'apocalisse. Anzi, come dimostrato da Piazzetta Cucia, il saldo potrebbe essere positivo per il Paese.
Il segnale più significativo su come stia cambiato l'orientamento è arrivato tuttavia dalla Germania dove Clemens Fuest, presidente dell'Ifo, istituto tedesco di ricerca economica. «Il livello di vita in Italia è lo stesso del 2000. Se questo aspetto non cambia gli italiani potrebbero optare per l'uscita dalla valuta comune» ha dichiarato Fuest per poi aggiungere: «Se risulta che l'euro è un ostacolo alla crescita in Italia, sembra preferibile che il Paese lasci l'euro».
L'Italia, come sottolineato da Fuest, solo nel 2017 dovrà rifinanziare 260 miliardi di debito pubblico (214 di vecchi titoli e gli altri di interesse) e quando la Bce stringerà i cordoni del quantitative
easing, lo spread potrebbe andare in orbita, portando gli interessi sul debito a cifre insostenibili (negli ultimi vent'anni sono già stati destinati 1.700 miliardi a retribuire i finanziamenti) che ostacolerebbero la crescita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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