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Trump e il piano Venezuela. "Pronti all'azione militare"

Il presidente fece pressione sui collaboratori per cacciare Maduro. "L'idea è ancora sul tavolo"

Trump e il piano Venezuela. "Pronti all'azione militare"

Nel giorno della celebrazione dell'indipendenza degli Stati Uniti, il 4 luglio scorso, l'agenzia statunitense Ap informava il mondo che Donald Trump aveva fatto pressione, nell'agosto del 2017, su alcuni suoi stretti collaboratori oltre che sul presidente uscente della Colombia, Manuel Santos, affinché si preparasse un intervento militare contro la dittatura genocida del Venezuela di Maduro. Un soggetto che, per la cronaca, da quando nel 2013 si è insediato a Miraflores, ha già costretto 4 milioni di suoi connazionali a fuggire all'estero, oltre a farne morire per fame, violenza paramilitare e malattie curabili, almeno altri 10mila.

Fonte di Ap un anonimo «ufficiale di lunga data dell'amministrazione Usa» vicino a Joshua Goodman - l'autore del lancio d'agenzia ripreso subito dalla rivista Time e dalla Cnn - che sostiene come «ancora adesso frulli in testa a Trump» l'idea di attaccare manu militari il Venezuela. Secondo la misteriosa fonte, tra agosto e settembre dello scorso anno, Trump espresse questa sua «idea» anche nella cena dell'annuale Assemblea Generale Onu con alcuni presidenti importanti dell'America latina. Peccato solo che nell'agosto 2017, di fronte a domanda precisa sul dramma venezuelano, lo stesso presidente Usa rispondesse così: «Sì, stiamo considerando tutte le ipotesi, compresa quella militare per fini umanitari». Della serie: già un anno fa Trump aveva detto chiaramente quanto lanciato come scoop da Ap.

Nel primo incontro con i suoi più stretti collaboratori, continua Associated Press, a Trump - che faceva gli esempi delle invasioni vittoriose contro Granada (1983) e Panama (1989) si oppongono con maggior forza Rex Tillerson ed il generale H. R. McMaster, allora rispettivamente segretario di Stato ed assessore per la Sicurezza Nazionale, entrambi poi silurati da The Donald. Tillerson sostituito da Mike Pompeo, ex direttore della Cia ma, soprattutto, il primo alto funzionario Usa a denunciare durante un incontro dell'Aspen Institute i vincoli tra la dittatura di Maduro, il narcotraffico ed il terrorismo internazionale. McMaster lo stesso che per El País era entrato in rotta con Trump per non volere definire «terrorismo radicale islamico» quello portato avanti dall'Isis - avvicendato invece dal «falco» John Bolton. Nel caso del colloquio con Santos, a detta di Goodman, anche due alti funzionari di Bogotà confermano la versione dell'onnipresente «gola profonda» dell'amministrazione Usa, ma nulla viene detto sull'entrata ufficiale nella Nato, a fine maggio scorso, della stessa Colombia, il Paese più colpito dall'esodo da Caracas visto che accoglie ogni giorno 20mila venezuelani alla fame.

Insomma, come trasformare tutte cose già note in un presunto scoop, al punto che proprio ieri un portavoce di Trump si è visto costretto a ribadire quanto da noi scritto poco sopra. Uno scoop, invece, ve lo dà Il Giornale, per bocca di Arturo Ramos Caldera, nipote dell'ex presidente venezuelano Rafael Caldera, l'uomo che nel 1999 lasciò la guida del Paese sudamericano a Hugo Chávez. «Sa chi fece lobby nel 1998 per raccogliere il maggior quantitativo di fondi possibile per la campagna elettorale del primo Chávez? L'allora ministro consigliere dell'ambasciata Usa a Caracas, Thomas Shannon». L'uomo di Barack Obama per l'America latina, pensionatosi da sottosegretario agli Esteri di Trump lo scorso 4 giugno, appena un mese prima dell'Indipendence Day. Probabile che la «gola profonda» di Ap sia proprio lui, onnipresente sul Venezuela anche al fianco di Trump, e ora sui media, anche se da anonimo pensionato.

Infine un suggerimento che arriva da una nostra fonte anonima, importante membro dell'opposizione a Maduro: «Per far cadere il dittatore in meno di un mese sarebbe sufficiente un embargo petrolifero di Washington, che invece continua ad acquistare ogni giorno 800mila barili di petrolio da Caracas».

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