Cultura e Spettacoli

La violenza politica? Figlia degenere della contemporaneità

Lo storico Musiedlak ribalta le tesi correnti: per lui il terrorismo è figlio della società di massa

La violenza politica? Figlia degenere della contemporaneità

Un grande studioso dell'età contemporanea, Walter Laqueur autore di opere fondamentali sui regimi autoritari e totalitari del Ventesimo secolo oltre che sulla storia e sulla fenomenologia dell'uso della violenza in politica scrisse in un lavoro dedicato al «nuovo terrorismo» pubblicato all'indomani dei tragici avvenimenti dell'11 settembre 2001, che esistevano almeno centocinquanta definizioni relative al terrorismo. Tutte ne stabilivano il collegamento con il concetto di violenza e molte ne sottolineavano la contiguità con altri fenomeni storici, dal banditismo alla guerriglia, dal tirannicidio alla guerra civile. Sforzo dello studioso, che censì con pazienza certosina tante efferate manifestazioni di violenza politica o parapolitica dai tempi degli zeloti dell'antica Palestina romana al contemporaneo cyberterrorismo, era quello di coglierne elementi comuni capaci di consentirne tanto una lettura univoca quanto una spiegazione razionale.

Il bel volume di Laqueur, come altri sullo stesso argomento e dello stesso autore, per quanto suggestivo e documentato, non pervenne a conclusioni definitive proprio a me sembra per il tentativo di rendere il terrorismo, grazie al collegamento con l'uso della violenza, un concetto antico e ricorrente in tutti i tempi. In realtà, il terrorismo, quali che ne siano le manifestazioni e le modalità di esecuzione, è un fenomeno moderno, figlio, per così dire, della tradizione rivoluzionaria europea.

Lo dimostra molto bene un autorevole storico francese, Didier Musiedlak, nato dalla covata intellettuale di Raymond Aron e specialista riconosciuto nello studio dei regimi totalitari del Novecento, in un suggestivo volume il cui titolo L'atelier occidental du Terrorisme. Le racines du mal (Les Éditions Arckhè, pagg. 386, euro 21,50) è di per sé largamente esplicativo. Il terrorismo secondo questo studioso francese che unisce l'approccio empirico della «storia fattuale» a quello intellettualmente stimolante della «storia culturale» non ha nulla a che vedere con la lunghissima tradizione di attentati politici o di tirannicidi che hanno costellato la storia dell'umanità. Esso gli appare, piuttosto, come un fenomeno moderno, inquietante e complesso, la cui genesi e il cui sviluppo sono strettamente collegati alla decomposizione delle «società tradizionali» e alla transizione verso la «società di massa». Si potrebbe addirittura affermare che esso, soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo, sia un prodotto della «modernità» e della «modernizzazione politica» con tutto quello che ciò implica, dai processi di concentrazione e burocratizzazione amministrativo-politica alle manifestazioni di «rivolta delle masse» all'interno di una «società di massa» ovvero di una società che si avvia a diventare di massa. Per quanto non assimilabile a un'ideologia nel senso proprio del termine, esso, nelle sue varie declinazioni, finisce per sostanziarsi di un vero e proprio contenuto ideologico.

Il terrorismo moderno viene generalmente fatto nascere nella Russia zarista fra gli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo quando il movimento rivoluzionario, diretto contro l'autocrazia zarista, passa da una fase «propagandistica» attiva soprattutto nelle campagne alla «azione diretta» che ha il suo punto di forza nelle città e nei centri urbani. È evidente nei protagonisti di quella stagione terroristica (mirabilmente ricostruita in uno dei capolavori della letteratura russa dell'epoca, I demoni di Fëdor Dostoevskji), il peso di tradizioni culturali occidentali che affondavano le proprie radici in taluni sviluppi della Rivoluzione francese, nel pensiero anarchico, nel nichilismo e, infine, in talune derive del sindacalismo rivoluzionario. Nello sviluppo dell'attività terroristica in questo periodo e fino allo scoppio della prima guerra mondiale, dopo l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, peraltro, al di là delle suggestioni o discendenze intellettuali, una certa, e non secondaria influenza, l'ebbero la trasformazione della «cultura nazionale» all'interno delle compagini statuali, le rivalità fra le grandi potenze e le lotte delle minoranze nazionali nei grandi imperi.

All'indomani del conflitto, poi, e per certi versi come conseguenza dello stesso, si registrò un incremento del terrorismo: inizialmente «destinato a suscitare la paura nelle masse», questo divenne «strumento privilegiato di lotta per i partiti politici non democratici e per i gruppi paramilitari» assemblando «simboli e pratiche», ma anche rituali, stili e contenuti ideologici. Per lo sviluppo dei totalitarismi, il terrorismo si rivelò essenziale anche perché il «terrore istituzionalizzato» è insieme al cosiddetto «universo concentrazionario» e all'idea di una «rivoluzione permanente» uno degli elementi identificativi dei regimi totalitari come il comunismo sovietico o il nazionalsocialismo tedesco. Questi regimi sono vere e proprie «religioni secolari» che legittimano lo Stato, identificato col partito unico, a utilizzare il terrore come supporto per realizzare un progetto ideologico e politico fondato sull'illusione escatologica e millenaristica della possibilità di un «paradiso in terra». La logica di quelle che Musiedlak chiama «l'internazionale rossa» e «l'internazionale nera» sta tutta qui, in un fenomeno di «sacralizzazione» della politica che ha nel terrore, in particolare nel «terrore di massa», il suo migliore e più efficace strumento.

All'indomani della seconda guerra mondiale pur in un contesto geopolitico completamente mutato ma caratterizzato dallo scontro ideologico fra mondo liberale e mondo comunista il terrorismo non scomparve affatto dalla scena politica e accompagnò anzi, in misura sanguinosamente eclatante, i processi di decolonizzazione. Esso finì per assumere una connotazione ideologica sempre più anti-imperialista anche in relazione alle resistenze manifestate dalla maggior parte delle potenze occidentali nei confronti dei movimenti indipendentisti e di liberazione miranti alla creazione di nuovi Stati-nazione. È proprio, in certo senso, dagli imponenti fenomeni storici della «colonizzazione» e «decolonizzazione» che nasce il terrorismo islamico. Il quale, ormai, ha assunto i connotati di un'ideologia politica sacralizzata a vocazione totalitaria, una «religione secolare» insomma.

Musiedlak analizza in profondità nelle luci e nelle ombre ed è questa la parte più innovativa e suggestiva del suo lavoro il rapporto tra mondo occidentale e mondo arabo, tanto moderato quanto fondamentalista. Gli europei, più in generale gli occidentali, non sarebbero stati capaci, a suo parere, di comprendere le aspirazioni di uomini che avevano scommesso sulla modernità come Mossadeq in Iran, Nasser in Egitto, Nkrumah in Ghana. E questo fatto ha avuto le sue conseguenze. Oggi, il fondamentalismo islamico contesta l'Occidente accusandolo di aver cercato di distruggere la «comunità musulmana» in nome di nazionalismi e imperialismi.

Esso però, pur rigettando liberalismo e marxismo in quanto modelli politici dell'Occidente, ha recepito e messo al servizio della causa islamica un altro concetto politico tipicamente occidentale, quello di «rivoluzione», passato per il giacobinismo francese e l'ottobre sovietico.

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