Carlo Monti
Una volta dentro il recinto dello stadio di Bologna, che ai miei tempi si chiamava Littoriale, cresceva, mezzo secolo fa, una quercia che Ondina Valla aveva piantato in un fazzoletto di terra dopo averla portata da Berlino dove nellagosto del 1936 aveva vinto la prima medaglia olimpica al femminile per lItalia. «Era piccola mi disse un giorno nellormai lontano 1987, mentre insieme assistevamo ai campionati mondiali di Roma tanto piccola che stava dentro un vasetto, caricato, senza problemi, sulla reticella dello scompartimento che mi riportava a casa, da Berlino a Bologna. Non so se quella quercia cè ancora, ma so che era cresciuta ed era diventata un albero vero ed era quanto restava della mia avventura allOlimpiade del 36 nellimmenso stadio di Berlino. Lunico ricordo rimasto, perché la medaglia doro non lho più trovata; credo me labbiamo rubata e spero che un giorno qualcuno me ne possa dare unaltra».
A Roma, quando la rividi, era una bella signora, anche se si lamentava di tutto, soprattutto dei suoi malanni e di un dolore al ginocchio, che aveva anche quando correva, perché aveva labitudine di toccare lostacolo. Lamentarsi faceva parte del suo carattere: il giorno in cui vinse loro di Berlino, era convinta che non sarebbe nemmeno riuscita a presentarsi alla partenza della finale, colpa del mal di gambe. A Roma, le ricordai la portata storica della sua impresa berlinese e i tanti record. Tanti perché lei era davvero una superatleta, non soltanto sugli 80 ostacoli, che era diventata la sua vera specialità; nellalto, era stata capace di conquistare il primato italiano a 14 anni. Ondina ricordò con grande lucidità le sue prime gare con la Bologna sportiva, poi con la Virtus e infine con la Parioli di Roma; le sue sedici maglie azzurre, la prima a quindici anni, in occasione di un confronto Italia-Polonia. E mi ricordava come allora bastasse essere chiamata in nazionale e mettersi addosso la maglia azzurra per sentirsi felice. Del suo primo periodo, era particolarmente affezionata alle vittorie ai campionati mondiali dello sport universitario a Parigi: aveva 17 anni e venne definita «la piccola meraviglia italiana», poiché vinse i 100 metri in 129, gli 80 ostacoli in 122, il salto in alto a 1,45 e la staffetta 4x100 in 515. Mi ricordò i suoi quindici titoli di campionessa italiana (due volte nei 100 metri, sei negli 80 ostacoli, cinque nellalto, uno nel pentathlon, uno nella staffetta 4x100) e i ventun record. Raccontava tutto con entusiasmo, come un fiume in piena, sparando cifre che mi sembravano persino inventate.
Quando si arrivò a parlare dei Giochi di Berlino, quelli che hanno segnato la storia dellOlimpiade per mille ragioni, le venne un groppo in gola, ma si riprese subito; e raccontò di essere sempre stata sicura della vittoria appena superato il filo di lana. Tre atlete (lei, la Steuer tedesca e la Taylor, canadese) in un fazzoletto, tutte in 117 con la Testoni, che da allora le tolse il saluto, quarta. Eppure le due erano cresciute insieme alla Virtus; «la Testoni era bolognese come me e più vecchia di me di sei mesi; eravamo compagne di scuola al Regina Margherita. Il mio corredo datleta me lo ero fatto da sola: comprai le scarpette con i chiodi, i calzoncini me li cucii da sola, la tuta me la davano il giorno della gara e la ritiravano il giorno dopo».
Lultima volta che la vidi, mi sembrava vivesse in un altro mondo; forse non si ricordava nemmeno di essere stata campionessa olimpica.
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