Tutti sono in attesa, fra un anno, della prima delle due parti della pellicola che il regista spagnolo Guillermo del Toro, splendido specialista di film fantastici, sta girando basandosi su Lo Hobbit.
La popolarità di J.R.R. Tolkien non accenna a diminuire, i suoi fans si moltiplicano sempre più, ma quanti di essi si chiedono da dove il professore di Oxford attingesse le sue fantasie, che basi avesse la sua immaginazione, quali le radici della sua personale mitologia? Per capire meglio di che stoffa siano fatte le trame tolkieniane è imprescindibile ricordarsi cosa egli fosse: non un romanziere di professione, ma un docente di anglosassone, un linguista, un medievista, un mitologo. E da queste sue competenze traeva il materiale grezzo che poi, filtrato dalla propria sensibilità, sedimentato nel terriccio della propria mente (come diceva) si trasformava alla fine negli sfondi, nei personaggi e nelle storie esposte nelle sue opere. Non dunque mere fantasticherie quelle di Tolkien, ma Vera Fantasia dalle nobili ascendenze culturali.
Per capire bene quel che intendiamo dire sono utili, anzi indispensabili, i due inediti di Tolkien appena pubblicati: La leggenda di Sigurd e Gudrùn (Bompiani), di cui si è già parlato su queste pagine, e Sir Gawain e il Cavaliere Verde (Edizioni Mediterranee) in libreria da oggi. In essi si trovano le fonti della ispirazione alto e basso medievale della sua narrativa. Tutti, o quasi tutti, i suoi simbolismi provengono dalla storia, dalla letteratura e soprattutto dalla mitologia medievali.
Tolkien non soltanto studiò e insegnò queste materie, ma le amò, furono la passione di tutta la sua vita. Ecco spiegato il motivo per cui volle reinterpretare le saghe norrene, riscrivendole con sue modifiche e contributi ne La leggenda di Sigurd e Gudrùn, ed ecco perché volle riscrivere poeticamente in un inglese più comprensibile ai lettori del Novecento un poco noto ma straordinario poema cavalleresco del XIV secolo come Sir Gawain e il Cavaliere Verde di cui aveva preparato un’edizione critica del testo originale nel 1925. Il testo rimase inedito fino al 1975, anno in cui il figlio Christopher lo diede alle stampe insieme alle versioni di altri due poemetti altomedievali, anch’essi di autore anonimo (forse lo stesso per tutti e tre): Perla (un viaggio mistico nel Paradiso) e Sir Orfeo (una versione cavalleresca del mito greco), anch’essi inclusi nella edizione italiana, tutti splendidamente tradotti da Sebastiano Fusco.
Sir Gawain e il Cavaliere Verde racconta di una duplice sfida: quella del cavaliere misterioso tutto di color verde che in sella ad un cavallo anch’esso verde entra a Camelot e sfida i presenti a decapitarlo. Solo Gawain accetta e lo decapita: il Cavaliere Verde raccoglie la sua testa, monta in groppa e gli dà appuntamento fra un anno per restituirgli il colpo, secondo l’etica cavalleresca. Questa è la prima sfida, esteriore. La seconda è personale, perché Gawain messosi in viaggio dodici mesi dopo raggiunge un castello dove trova ospitalità: qui dovrà resistere alle lusinghe della bella signora, moglie del castellano, che invano tenta di circuirlo in maniera sempre più sfrontata. Gawain resiste e alla fine la dama gli consegnerà una sciarpa che lo renderà invulnerabile. È grazie ad essa che Gawain supererà la prova della decapitazione da parte del Cavaliere Verde, il quale alla fine si rivelerà essere un’altra persona. Quale qui non diremo.
Il poema è una miniera di simboli: dal cavaliere senza testa (che Tolkien definisce un troll) al suo colore: il verde, come spiega Franco Cardini nella postfazione al libro, ha molti sensi, dalla putrefazione/morte al rigoglio/vita, sino a quello della lussuria (il Green Man è infatti anche simbolo della fertilità).
Di tutto ciò Tolkien farà uso nei suoi romanzi, tenendo presente che la cavalleria da lui descritta è una cavalleria cristianizzata, ma anche che le prove cui viene sottoposto Gawain/Galvano possono essere interpretate sia alla luce di un’etica «pagana» che «cristiana».
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