"B come Berghem": viaggio nelle voci della Lombardia

A come Accademia dei Trasformati, che nella villa del conte Giuseppe Maria Imbonati radunava quanto di meglio fosse uscito dalla cultura milanese di metà Settecento: Tanzi, Passeroni, Larghi, Parini, Simonetta. Spuntano i salotti borghesi, i raduni letterari, i versi dialettali di Domenico Balestrieri: «Gh'è montagn, gh'è collin e gh'è pianura». B come Berghem de sura, silenzioso borgo d’altri tempi poi riconvertito in residenza della borghesia locale, con la piazza a losanghe, la Cappella Colleoni, la Torre del Capannone che ancora oggi alle dieci di sera «con i suoi centottanta rintocchi annuncia l’inizio della notte». C come cavicc, il tassello di legno appuntito impiegato per turare il buco di una botte, che negli antichi proverbi, in senso figurato, indicava una sorta di corno portafortuna: «Var pussee on tocchel de cavicc che tutta la sapienza de sto mond». Luoghi, paesaggi, culture, dialetti, scrittori, eroi: sono le «Voci di Lombardia» (Hoepli, pagg. 296, euro 25) che Franco Brevini, da studioso, giornalista e docente di letteratura, ricostruisce dalla A alla Z come un dizionario di viaggio («con una predilezione per le montagne conosciute in tanti anni di alpinismo», confessa). Dalle Grigne care a Leonardo ai Bagni di Bormio di Ludovico il Moro, dalla Valcamonica garibaldina alla Brianza del Castellaneta. Non un’indagine sistematica ed esaustiva, ma piuttosto l’inizio di un percorso - impossibile da concludere, per la vastità della materia - che si può compiere saltando qua e là, da una voce all’altra, alla ricerca di qualche aneddoto curioso (come l’origine di pòta minga, bauscia o casciavid), o in maniera rettilinea, da cima da fondo, una parola al giorno. Dal catanaj di Emilio De Marchi al barlafus di Carlo Maria Maggi, dallo scopeto di Giosue Carducci al bigin del Ernesto Bignami, il dialetto lombardo diventa pretesto per raccontare eventi e personaggi di un illustre passato, di cui ancora oggi si conservano le tracce. Come il Verzè in piazza Fontana a Milano, dove teneva il banco del pesce la Ninetta di Carlo Porta. O la maschera di Meneghino, frutto dell’estro di Carlo Maria Maggi, sullo sfondo di una Milano spagnolesca poi descritta dal Manzoni.

O ancora il fiume Adda, con le filande, i cotonifici, il traghetto di Imbersago, le centrali della borghesia illuminata. E così fino alla lettera Z, con il celebre detto che invita ad agire soltanto a tempo debito: «Zucch e melon, ogni cossa a la soa stagion».

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