Benedetto Della Vedova

U no degli elementi più suggestivi di questa campagna elettorale è la straordinaria capacità che ha avuto il Partito democratico di mettere la sordina sulle responsabilità del governo di cui è figlio. Nel bene e soprattutto nel male l’ultimo governo Prodi ha rappresentato il culmine di un progetto politico che è partito quindici anni fa e si è infranto sugli scogli. Comprendiamo dunque la necessità tattica per Walter e i suoi di allontanarsi alla velocità della luce da un’esperienza fallita. Così come rinnegare le radici comuniste è stato un must della dirigenza diessina dopo la caduta del muro. Perfetto, comprensibile. E lo spostamento dei contenuti sul piano del mercato e dell’occidente non può che essere apprezzato da chi ha a cuore le sorti dell’Italia e guardi le elezioni da spettatore.
Ma occorre stare attenti su due fronti. Il primo è sulla sostanza della conversione al mercato dei democratici. Le contraddizioni nella formazione delle liste, con esponenti del sindacato duro e del capitalismo molle ne sono la spia più evidente. Ma all’interno dello stesso programma ci sono segnali preoccupanti. Si chiede la riduzione delle aliquote Irpef (bene), ma non si dice minimamente per quali fasce, per chi. Si dice di volere un mercato del lavoro più libero, ma si parla di una salario minimo per tutti. Insomma dalla teoria alla pratica ce ne corre.
Ma c’è un secondo fronte, aperto ieri dal Giornale. Il timore è che il Popolo della libertà si dimentichi di quella eredità d’oro che ha portato alla sua nascita e all’affermazione di Silvio Berlusconi nel 1994. Scriveva ieri Mario Giordano: «Sognavamo la rivoluzione liberale, non possiamo finire a Fanfani».
La vocazione maggioritaria di questa campagna elettorale deve spingere il centrodestra a riproporre con forza i suoi princìpi fondanti: più mercato e meno stato, più individui e meno sindacati, più libertà e meno ingerenze.
Le quattro interviste che abbiamo fatto sono una risposta alla nostra provocazione. Crosetto ricorda bene come il mercato si fondi sulle regole, ma non sull’oppressione legislativa. Della Vedova rivendica la credibilità di una politica che non si è convertita solo recentemente al mercato.

Urso ricorda il rischio del «socialismo municipale» e Castelli il senso della responsabilità del federalismo.
È auspicabile che i toni di una competizione elettorale rimangano pacati, ma non si può mediare al ribasso sui princìpi del buongoverno.
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