Le buste paga al Nord valgono la metà

Ecco la prova: a confronto il salario reale di un operaio di Torino con quello di un collega di Cassino. Abolite alla fine degli anni '60 perché anti-democratiche le gabbie salariali tornano d'attualità

Le buste paga al Nord valgono la metà

In questa inchiesta il Giornale testimonia una cosa nota, ma colpevolmente rimossa. Uno stipendio al Sud permette di acquistare beni e servizi per i quali al Nord sono necessari due stipendi. Eppure questa evidenza empirica è fuori dai «tavoli sindacali», esclusa dalle «agende governative», cancellata dalla retorica giuslavorista. È l’ennesima testimonianza di come i problemi del lavoro e soprattutto della tenuta dei salari siano oggetto di speculazioni politiche più che di ricerca di soluzioni concrete, tangibili, efficaci.

Un ferroviere di Milano guadagna come il suo omologo a Bari, un metalmeccanico di Brescia quanto un suo pari di Salerno. Seppure il costo della vita e la produttività di aree e aziende diverse siano spesso incomparabili. L’idea di massificare, di rendere omogeneo, di livellare, di uguagliare al basso la nostra retribuzione è il prodotto di una cultura marxiano-sindacale inossidabile. E quando un imprenditore come Diego della Valle, per un attimo getta alle ortiche la sua passata militanza confindustriale, e decide di dare ai suoi dipendenti (iperproduttivi e specializzati) un premio da 1.400 euro l’anno, le forze sindacali urlano e strepitano. E si capisce anche il perché: il processo per il quale un datore di lavoro contratta e stabilisce le retribuzione (sia pure nella sua componente flessibile) direttamente con i propri collaboratori, depotenzia il ruolo di mediazione del sindacato e dunque la sua stessa essenza.

Ma il punto è esattamente questo: a cosa ha portato questa cultura del lavoro uguale per tutti e retribuito con standard identici in diverse aree del Paese? La sofferenza di molte famiglie monoreddito e il deflagrare di una rinnovata questione settentrionale sono il termometro di questa ipocrisia. Sindacato e Confindustria sono stati incapaci (anche se le colpe vengono sempre e comunque attribuite alla Politica) di superare i totem della contrattazione collettiva made in ’68. Secondo l’ultima ricerca dell’Ocse i salari reali in Italia sono al penultimo posto nell’Europa dei Quindici. La retribuzione media in Italia, a parità di potere d’acquisto, è di 16.242 euro l’anno. Peggio di noi, solo i portoghesi.

L’insistente retorica di non differenziare le retribuzioni per area geografica e per impresa (legandola così alla produttività) ha quindi portato il brillante risultato di appiattire la retribuzione media dei nostri lavoratori verso il basso della media europea. Complimenti.
C’è un secondo aspetto che non si deve però dimenticare. Negli ultimi dieci anni si è assistito a uno straordinario scambio tra occupazione e salari. In dieci anni sono stati creati più di 2,5 milioni di posti di lavoro e mantenute sostanzialmente ferme le retribuzioni medie: la logica è di assumere a più non posso, mantenendo ferma la retribuzione degli insider, così da non compromettere del tutto la tenuta dei conti del datore di lavoro. Valga, a titolo di esempio, la posizione del sindacato duro dei metalmeccanici della Fiom, sulla questione degli straordinari.

La Fiom si dice contrarissima a forme di detassazione spinta dell’orario maggiorato (in Francia si avvia ad essere quasi esente da tasse) per la seguente logica: si facciano meno ore in più di lavoro e si assumano più persone. Bene, sulla carta. Male, nella sostanza. Sull’altare della difesa dell’orario standard e con l’impossibilità di licenziare neoassunti (ipergarantiti dalla nostra legislazione sul lavoro) l’impresa perde di competitività o nella migliore-peggiore delle ipotesi si arrangia. Sia chiaro: l’Italia ha un tasso di occupazione ancora basso e dunque incentivare l’allargamento della platea dei lavoratori è buona cosa.

Ma se il prezzo da pagare è quello di svincolare la nuova occupazione e la retribuzione degli insider dalle condizioni di vita delle città in cui si opera e dalla produttività delle imprese in cui si è impiegati il sistema economico collassa.
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