Ma care agenzie, noi preferiamo la nostra Europa

Il downgrade ha colpito l’area Ue senza sfiorare economie emergenti come India e Cina Il futuro che piace alle agenzie di rating? Megalopoli inquinate e mercati senza regole. E la Merkel si giustifica: "Serve rigore"

Ma care agenzie, noi preferiamo la nostra Europa

Nel giro degli ultimi tre anni e mezzo Italia e Cina si sono incrociate in una partita particolarissima: quella del rating. Ed è avvenuto il sorpasso. Fino al 2008 per Standard and Poor’s stavamo davanti noi: A+ contro A. Nel luglio di quell’anno siamo stati raggiunti e affiancati in classifica. Poi, due anni fa, il sorpasso, con Pechino promossa nel dicembre 2010 ad AA-. Un rating che, in queste settimane è stato confermato; mentre il nostro è sceso di due livelli, a BBB+. Quindi ora ci dividono addirittura 3 punti, quando quattro anni fa eravamo davanti di uno. Come noi, a livello BBB+, sono stati nel frattempo promossi l’India e il Sud Africa. Che sta succedendo?

Tra le tante chiavi di lettura ce n’è una che ci sembra originale. Ma anche indicativa. E sta scritta nero su bianco nelle carte dell’agenzia americana di rating: si scopre che tra le motivazioni per il downgrading di venerdì non ci sono i motivi di allarme che S&P aveva indicato in autunno; non i «rischi di bilancio», non il «blocco della situazione politica», né il timore per la crescita degli oneri finanziari, visto che le ultime aste di Bot e Btp si sono concluse con rendimenti dimezzati rispetto alla fine del 2011. Si parla piuttosto di «rischi di finanziamento esterno». Cioè si lancia un allarme per una presunta minore attrattiva della carta italiana. Avendo peraltro gioco facile: è proprio il downgrading a rendere i titoli meno attraenti. E il danno è fatto.

Per non parlare poi delle conseguenze «obbligatorie» che ci saranno sul mercato: come ha ieri raccontato al Giornale Pasquale Merella, partner della European Investment Consulting, big tra gli advisor per la previdenza complementare, i fondi pensione affidano in gestione il loro patrimonio sulla base di convenzioni che prevedono di investire in titoli di rating A o superiori. La carta italiana rientrava nella categoria e le società di gestione ne sono zeppe. Che faranno adesso? Riverseranno quantità mostruose di titoli italiani sul mercato? Per comprare bond cinesi? Forse è esattamente quello che vogliono gli gnomi di S&P. I quali, a pensar male, stanno approfittando del riconoscimento di una posizione super partes, che super partes non è, per mettere in ginocchio l’euro.

Ma anche a pensar bene (e non è facile) le agenzie di rating convincono sempre meno: torniamo in Cina e leggiamo che tra le motivazioni per la conferma del rating AA- di dicembre ci sono «Le eccezionali prospettive di crescita, la forte posizione patrimoniale estera (il boom dell’export, ndr), e il modesto indebitamento del governo». Un po’ come per l’India. Allora, forse, abbiamo scoperto l’uovo di Colombo: Standard & Poor’s ritiene che le economie emergenti, con i loro deficit di democrazia, le legislazioni del lavoro selvagge e il welfare questo sconosciuto, siano sempre più interessanti rispetto alla vecchia Europa (oltre all’Italia sono arrivate raffiche di downgrading in tutto il Continente) e financo degli Stati Uniti (è stata S&P, in agosto, a togliere la tripla A agli Usa). Quindi, basta investire nel Continente definito, per l’appunto, «Vecchio». Si vada nel nuovo. Rende sicuramente di più di un euro che non sa più crescere ed è pieno di debiti.

Ma allora fermiamoci un attimo: l’Italia e l’Europa non piacciono più alle agenzie di rating? E anche gli Usa un po’ meno? Bene: che si trasferiscano in Cina e in India. Vadano a investire e pure a vivere a Pechino o a New Delhi. Quando va bene. Nelle irrespirabili città industriali del boom economico cinese, quando va meno bene. Mentre noi europei hic manebimus optime: ci teniamo le nostre imperfette democrazie e pure i nostri debiti, che per adesso abbiamo sempre pagato.

Chi l’ha detto che un’economia è sana e affidabile solo se cresce sempre, e con tassi a due cifre? Questa è una convinzione che si è diffusa negli ultimi anni, ma non è necessaria. La stessa costruzione dell’area euro, con una banca centrale concepita per non finanziarsi attraverso l’inflazione, è un meccanismo che né favorisce, né richiede la crescita esasperata.

L’importante è che i singoli Stati abbiano il bilancio in pareggio. E questo è quanto si sta mettendo in atto in questi mesi. Se le agenzie di rating non lo capiscono o non lo vogliono capire, sappia questa Europa, da venerdì, fare a meno di loro.

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