Cercasi paracadute

Ieri il governo ha compiuto una scelta saggia e ipocrita al tempo stesso. Ha deciso di sbarazzarsi di Alitalia, ma con juicio. Con una decisione a sorpresa il Tesoro venderà una quota superiore al 30 per cento di Alitalia. Bene, dunque. Essendo quest’ultima una società quotata, chiunque compri avrà l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto sull'intero capitale in circolazione. Dunque sul 19 per cento residuo che il Tesoro potrebbe ancora mantenere e sul 51 per cento che è libero sul mercato. Se con una mano il governo ha tirato fuori l’asso della competizione e del mercato, con l’altra ha fatto un fischio. «Attenzione, acquirenti di Alitalia - ha più o meno detto in un comunicato - dovete dare prova di essere dei fenomeni. Dovete comprare tutta la compagnia, presentando un piano industriale dettagliato che garantisca i livelli di servizio adeguati in Italia, livelli di occupazione e l’identità italiana di Alitalia». L’acquirente si deve poi impegnare a mantenere logo e brand Alitalia.
Insomma privati sì, ma che si adeguino allo stile del carrozzone pubblico. Mantenere l’identità italiana e i livelli di servizio adeguati sono concetti più o meno vaghi. E aperti alle valutazione dei consulenti che il Tesoro sceglierà per la vendita. Ciò che è incredibilmente ipocrita è l’«obbligo di mantenere i livelli occupazionali». È su questo aspetto che si alimentano le incongruenze. Il problema di Alitalia non è finanziario (solo un anno fa ha reperito un miliardo di euro con un aumento di capitale), ma industriale. Il costo del lavoro e i dipendenti del gruppo sono il nodo da sciogliere. Chi si azzarda a comprare un’azienda da un venditore che vuole che si mantenga tutto così come è? E soprattutto gli aspetti più critici, come costo e qualità del personale?
L’intento di una privatizzazione è quello di rendere un miglior servizio ai cittadini. Fino a prova contraria i requisiti richiesti dal bando di gara, anche se occorrerà vederlo nel dettaglio, non vanno in questa direzione. Due giorni fa il presidente del Consiglio ha detto di non preoccuparsi eccessivamente di questioni Antitrust riguardo la vendita di Alitalia.
Se Air One, gestita da un imprenditore con i fiocchi come Carlo Toto, dovesse comprare la ex compagnia di bandiera disporrebbe di oltre il 70 per cento del mercato domestico. E se l’Antitrust, come ha già fatto sapere il suo presidente, vista l’eccezionalità della situazione, dovesse chiudere un occhio ci troveremmo davanti alla creazione di un moloch domestico che rappresenta la contraddizione più palese e ipocrita della privatizzazione. Pensate a una tratta redditizia come Milano-Roma gestita da un solo gruppo. Chi se ne importa, verrebbe da dire, se il proprietario di questa rendita sia un privato o il pubblico. Ecco che in questo caso comporterebbe poca differenza mantenere i livelli occupazionali. La rendita sarebbe talmente grassa da riempire anche le più macroscopiche inefficienze.
Malizie dettate dalle attenzioni perniciose che questo governo ha avuto nei confronti delle grandi imprese italiane. È lo stesso esecutivo che ha costretto Tronchetti alle dimissioni per divergenze sulla gestione della Telecom, che sta bloccando la fusione di Autostrade con Abertis, che taglia le unghie a Mediaset e che vuole utilizzare i fondi di Cdp e Fondazioni per investire nelle reti infrastrutturali. Ci viene automatica una certa sfiducia. Ma possiamo e speriamo di sbagliare.
Nel quel caso vedremmo Alitalia comprata da un acquirente con un piano industriale di mercato.

Tagli drastici alle inefficienze, comprese quelle del personale, inserimento in una logica internazionale senza badare alle questioni di campanile (che fanno dell’Alitalia un mostro con due teste aeroportuali). Insomma un acquirente che, parafrasando l’ottima definizione di Luca Cordero di Montezemolo, non sia un kamikaze con il paracadute.

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