CI VORREBBE UN PREMIER

La storia ci tocca e ci coinvolge con la sua logica di ferro che spesso genera sofferenza. Due sottufficiali italiani sono stati rapiti in Afghanistan e c’è apprensione, paura anche, per la loro sorte. I nostri soldati vanno dove li porta il bisogno di pace e di sicurezza, testimoni attivi di uno sforzo internazionale, ampio e condiviso, per migliori condizioni di vita là dove diritto e serenità sono negati, in zone segnate dalla violenza endemica, dalla guerriglia continua. Non sappiamo con esattezza chi li abbia rapiti e perché: è evidente che la loro presenza e la loro azione disturbavano i movimenti di terroristi o di mercanti di armi o di droga. La nostra speranza è che un’azione intelligente, d’investigazione e di trattativa, ce li restituisca presto.
Per l’Italia si profila un’altra prova importante. Il nostro Paese è una media potenza regionale – per usare il metro delle cancellerie – che ha consapevolmente e responsabilmente assunto degli obblighi per il mantenimento della pace e per la lotta al terrorismo internazionale che minaccia tutti e costantemente, non soltanto nel mese di settembre delle memorie luttuose. Anche il capo dello Stato, il quale pure viene da un’officina ideologica che del fronte della pace aveva un’altra concezione, sottolinea la necessità del nostro impegno militare e umanitario sui fronti caldi. E l’Italia ha tutto per adempiere ai suoi obblighi di ruolo. Ha lo strumento militare, fratelli nostri preparati e generosi, ha i mezzi (nonostante l’avvilente politica della lesina per la Difesa), peccato che in questo momento le manchi un elemento che non è proprio un dettaglio insignificante: il governo.
Già nelle scorse settimane, quando l’impegno offensivo delle milizie talebane si era indirizzato contro i militari italiani, la sinistra radicale, che è parte prepotente e ricattatrice della coalizione del travicello Prodi, aveva cominciato ad agitarsi chiedendo il ritiro del nostro contingente dall’Afghanistan. Adesso sciacalleggia sul rapimento dei due sottufficiali e chiede con insistenza il ritiro dei militari. Anche Romano Prodi è un ostaggio, chissà se potrà resistere ai talebani di casa nostra. Ne dubitiamo.
Intanto ci prepariamo a una prova difficile. Saremmo tranquilli se per la liberazione dei nostri militari ci fosse lo stesso spiegamento mediatico e movimentista che ha accompagnato il sequestro del giornalista Mastrogiacomo e di operatori umanitari come le due Simone. Ma anche di questo dubitiamo, vista la «simpatia» del popolo della sinistra per gli uomini in divisa. Un film che abbiamo già visto. Eppure i militari rapiti non sono cittadini di seconda categoria, sono servitori dello Stato e della comunità nazionale.

Meritano lo slancio e la pressione di tutti perché si arrivi alla loro rapida liberazione. E la classe politica, in un momento come questo, dovrebbe dare prova della massima coesione, anche se il governo non è di seconda ma di infima categoria.

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