Conciliare i diritti della persona con la ragione di Stato è divenuto il tormento dell'Occidente da quando, con l'11 settembre, il terrorismo islamista si è fatto più micidiale. È infatti improponibile in Occidente mettere in discussione i diritti della persona che sono tra i beni più preziosi della nostra tradizione, laica e cristiana, umanistica e illuministica. Ma è anche divenuto impossibile ignorare che di fronte all'attacco nichilista la sicurezza collettiva impone un ripensamento delle regole della convivenza civile. È così che il dilemma tra libertà e sicurezza assedia tutti, in America, in Europa, e in Italia. La legge ad hoc approvata dal Congresso statunitense merita perciò un'attenta riflessione in quanto rappresenta un esempio di come si possa risolvere in pratica l'angoscioso dilemma. Con pragmatismo i senatori americani, con una maggioranza dei due terzi comprendente i Repubblicani e una parte dei Democratici, hanno sì condannato senza mezzi termini le torture perpetrate ad Abu Ghraib e a Guantanamo ponendo chiari limiti all'esercizio della violenza sui prigionieri, ma hanno altresì conferito all'esecutivo il potere discrezionale di utilizzare entro certi limiti metodi per così dire «forti», qualora sia in gioco la prevenzione di atti terroristici e la possibilità di garantire maggiore sicurezza alla collettività.
Si è trattato dunque di una decisione pragmatica e non ideologica. Il Congresso è riuscito a risolvere per via legislativa il conflitto insorto tra, da una parte, la Casa Bianca tutta protesa ad estendere e abusare dei propri poteri sui prigionieri profittando del vuoto legislativo nazionale e internazionale in materia e, dall'altra, la Corte suprema che, come di consueto, ha funzionato da contrappeso con la dichiarazione di incostituzionalità delle commissioni militari in funzione giudiziaria e la richiesta di un quadro giuridico certo per i terroristi.
Si vedrà ora se il compromesso americano tra libertà individuali e sicurezza sociale funziona e salvaguarda i due beni supremi - la vita delle popolazioni e lo Stato di diritto - che oggi l'Occidente dovrebbe contestualmente tutelare. Anche in Italia si discute su questo groviglio, senza l'urgenza di dovere affrontare questioni simili a quelle dei prigionieri in America. Come è nostro costume, però, il dibattito sembra al momento seguire linee teoriche che, se possono chiarire i presupposti delle decisioni politiche, rischiano di isterilirsi nell'Accademia.
Angelo Panebianco ha sostenuto che, trovandoci in una situazione di guerra, occorre accettare le conseguenti misure di emergenza volte a salvare vite umane secondo una scelta che non è tra il male e il bene ma piuttosto quella del male minore. Tuttavia molte risposte alla provocazione dell'intellettuale liberale hanno contestato le sue argomentazioni, sia negando lo Stato di guerra come presupposto delle misure di emergenza, sia richiamando il tradizionale garantismo dell'Occidente.
La questione, dunque, anche da noi è aperta. Quel che mi sento di dire, tuttavia, è che su un tema così difficile occorrerebbe sempre effettuare le necessarie distinzioni senza abbandonarsi a pulsioni ideologiche.
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