«Papà dice che mentalmente sono molto più forte di lui». «Papà dice che ho imparato a restare più concentrato di lui». «A papà devo tutto». «Papà mi ha spiegato tante cose». «Papà mi ha messo sul go kart». «Papà dai quattro anni ai sedici mi ha aiutato più di tutti». «Che cosa ho fatto fino ai quattro anni di età? Semplicemente... ho vissuto».
Max Verstappen, felicità e tristezza della Formula uno e dello sport. Felicità perché a 18 anni e 227 giorni diventa il più giovane pilota vincitore di un Gran premio. Tristezza perché è stato programmato per correre e dominare e praticamente non ha vissuto. Felicità perché il suo record fa bene a uno sport vecchio e morente. Tristezza perché non siamo di fronte alla storia bella e romantica di un pilota sopraffino scoperto e sbocciato all'improvviso ma alla metodica, ostinata, caparbia costruzione di un talento. Felicità perché l'occhio bambino e vispo e rapace fa molta tenerezza e molta voglia di futuro. Tristezza perché in molti rammentano ancora di quando prendeva scossoni (...)
(...) dal papà incacchiato per certi errori. Felicità perché questo olandesino volante è il primo pilota nativo digitale che azzanna la vetta del podio e segna una nuova Era. Tristezza infinità perché non si può provare altro sentimento quando si ascolta una ragazzo dire, come fosse la cosa più normale del mondo, che ha vissuto solo quattro dei suoi diciotto anni di vita.
Il ragazzo Max, infatti, non esiste. Non è mai esistito. È un ologramma. Un pensiero relativo, una sensazione. C'è stato al massimo e per poco un bambino. Giusto una manciata di anni. Per il resto, mai pervenuto il ragazzo Max. È invece sempre e solo esistito il pilota Max figlio di Jos, onesto gregario del Circus, di una mamma kartista e nipote di un nonno che correva a Le Mans. Vien da sé che Max sia cresciuto declinato in un'esistenza al volante: cioè babypilota, pilotino, ragazzino sui kart, ragazzo kartista, giovane pilota delle serie minori, fino a collaudatore non ancora maggiorenne del vivaio Red Bull. Quest'ultimo passaggio evolutivo è arrivato in quel di Spa Francorchamps, neppure due anni fa. Max si presentò dicendo che «no, non mi ispiro a mio papà Jos, pilota degli anni '90, ma a Fernando Alonso, perché come lui voglio sempre avere ogni cosa sotto controllo in pista...». E per ringraziamento, dall'ombroso asturiano, si prese un bel «enno, dove andiamo a finire se adesso arrivano in F1 i sedicenni... allora significa che è proprio finita, che queste macchine sono troppo facili da guidare». Peraltro dubbio, questo, diventato certezza: le formula uno, oggi, sono playstation che si muovono.
Quel giorno ci rimase il ragazzo. Prova ne sia che anche ieri sul tema ha glissato, «questa non è la mia risposta a chi diceva che ero troppo giovane» ha detto, «non sono qui per questo, io sono qui solo per divertirmi a correre...». E Max Verstappen si è talmente divertito che pronti e via, non appena messo sulla Red Bull, alla prima gara dopo aver preso il posto del russo Kvyat, ha scalzato dalla hit dei vincitori precoci nientepopodimeno che Seb Vettel (aveva 21 anni e 73 giorni quando vinse a Monza 2008) che a sua volta aveva detronizzato Fernando Alonso (22 anni e 26 giorni a Budapest nel 2003). Cosa che al ragazzo interessa poco perché «non ho eroi, non ho piloti da adorare nelle corse, bisogna solo rispettarsi reciprocamente e portare rispetto per quanto fatto da altri in carriera perché vincere una corsa è una cosa, conquistare il mondiale è un'altra».
Anche trovarsi lì, sui gradini più alti del podio di Barcellona dopo aver battuto Raikkonen campione del mondo 2007 e Vettel quattro volte iridato, lo turba niente. «Che età avevo quando Kimi vinse la sua prima gara? Credo sei, sei anni...». E «probabilmente era ai giardinetti» gli fa Vettel. Povero Seb. Ingenuo. Max non era ai giardinetti. Max era già in pista, a pigiare l'acceleratore di piccoli kart su mille giardinetti d'asfalto preparati da papà per svezzare, potenziare, liberare il talento che aveva visto nel figlio. Una sola cosa papà non aveva e non ha potuto gestire e addestrare: si chiama fortuna, fondoschiena, culo.
Quello che ti fa arrivare in F1 un attimo prima che cambino le regole e impongano un limite minimo di età; quello che ti fa passare dalla Toro Rosso alla squadra principale perché l'altro pilota combina pasticci a raffica e viene punito; quello che ti fa trovare nel posto giusto al momento giusto quando due Mercedes imprendibili si autoeliminano al primo giro e le Ferrari pasticciano la strategia. Quella cosa lì, Max, è tutta tua. È una dote. Appartiene solo ai predestinati.
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