DADA Basta la parola

Negazione e contraddizione, «tabula rasa» del passato e del futuro: questo fu il movimento fondato da Tristan Tzara fra 1916 e ’17 al Cabaret Voltaire di Zurigo

nostro inviato a Parigi
Vedere il movimento dadaista esposto in grande spolvero al Centre Pompidou, trenta sale, 1200 opere, un catalogo di mille pagine suddiviso in 250 capitoli, fa venire alla mente il grido derisorio che Ionesco lanciò dal suo balcone ai giovani contestatori del Maggio francese che gli sfilavano sotto casa: «Finirete tutti notai!». Il dramma delle avanguardie è che la storia le trasforma in accademie. Per alcune di esse il gioco vale forse la candela: si spegne la carica eversiva pura e semplice, ma in compenso si accende la luce dell’approfondimento, dell’esplorazione dei sentieri meno battuti, di uno sguardo d’insieme in grado di esaltare ciò che al tempo fu negletto, osteggiato, incompreso. Al futurismo, da questo punto di vista, non è andata poi così male: era arte ma era anche politica, ideologia, modo di vivere, visione del mondo. Ma il dadaismo no, era negazione e contraddizione, tabula rasa del passato come del futuro. Storicizzarlo vuol dire ammazzarlo.
Tristan Tzara, il suo fondatore, l’aveva capito sin dall’inizio: «Io stesso ho ucciso, di mia volontà, Dada, perché ho ritenuto che uno stato di libertà individuale fosse alla fine divenuto uno stato collettivo. Ora, niente è più antipatico della pigrizia cerebrale che annichilisce i movimenti individuali, anche i più vicini alla follia e contrari all’interesse generale. Ciò che interessa un dadaista è innanzitutto il suo modo di vivere».
Il certificato di morte stilato da Tzara riguardava in primo luogo l’esperienza surrealista che quel «cadavere eccellente» si era premurato invece di tenere bene in vita: attraverso uno stato maggiore, una disciplina, espulsioni a raffica, cooptazioni a ripetizione, processi pubblici e privati... Un modo di essere e di pensare agli antipodi di chi si era sempre considerato un catalizzatore di energie e non un leader.
Nato a Zurigo, fra il 1916 e il 1917, in quel Cabaret Voltaire fondato dal filosofo Hugo Ball, la neutralità del luogo di origine fa tutt’uno con il neutralismo del Paese che lo ospita e con il rifiuto dei suoi membri a intervenire nel carnaio della Grande guerra che tutto avvolge. Sono gli anni dell’indottrinamento ideologico, degli esteti armati, della lingua al servizio della propaganda. Scrivere chiaro, sostiene Tzara, è fare del giornalismo: «Abbiamo bisogno di opere forti, precise, sempre incomprensibili». Al Voltaire vanno in scena le poesie sonore astratte e il cinema astratto: Odio gli attori è il titolo del film di Ben Hecht presentato a Berlino due anni dopo. Il Manifesto Dada, apparso quello stesso anno, non è l’entrata in scena di una corrente artistica ma, come dice il suo estensore, «è il debutto di un disgusto». Si può essere dadaisti anche contro il dadaismo.
Fra Salon Dada, Festival Dada, esposizioni pittoriche Dada, il fuoco dadaista in quanto tale brucia per un pugno di anni. Il tempo sufficiente per far sì che una collezionista americana di passaggio in Europa, Katherine Dreier, affidi a Duchamp e a Man Ray la costituzione di una collezione d’arte battezzata Società anonima, primo nucleo di quello che nel tempo sarà il MoMa, Museum of Modern art, di New York. Il tempo sufficiente per raccogliere intorno al nuovo movimento chi è stanco delle legittimità editoriali o accademiche o delle logiche di appartenenza. Il tempo sufficiente per trasformare la totale anarchia delle origini in un nuovo ordine artistico all’insegna di una proclamata modernità. Solo che, parola di Tzara, «Dada non è moderno»... Il fuoco diviene brace, e poi cenere.
Negli anni successivi qualche altro tizzone divamperà ancora. C’è un neodadaismo americano (Duchamp in fondo vive negli States...) con Rauschenberg e Johns negli anni Cinquanta, un secondo dadaismo francese nei Sessanta, intorno a Debord, Tinguely, Jouffroy. Ogni qualvolta la società appare sazia e/o marcia, di merci, di cultura, di ufficialità, di dominio, di volgarità, un piccolo focolaio dadaista cerca di bruciarla irridendola. La società lì per lì accusa il colpo, poi ringrazia e si appropria della nuova provocazione. Dall’orinatoio di Duchamp alla «merda d’artista» di Manzoni, a Koons, a Cattelan, ingoia tutto. Il situazionismo della società dello spettacolo si ritrova con lo spettacolo divenuto società...
Ciò che purtroppo avvolge la mostra è proprio questo senso di déjà-vu, e quindi di stanchezza, come se tutto fosse stato già visto, già provato... Gli elementi trasgressivi degli anni Venti appaiono oggi una consuetudine, le improvvisazioni affidate all’estro, al luogo e al momento, come il poema simultaneo di Tzara, Janco e Huelsenbeck L’amiral cherche à louer une maison declamato nel 1916 al Voltaire, o il poema fonetico astratto Karawane, recitato da Hugo Ball in costume cubista, riprodotti artificialmente come semplici documenti sonori lasciano freddi, il «collage sintetico» che sulla grande sala del museo, con vista su Parigi, dovrebbe ricomporre le varie anime e la varie arti del movimento colpisce, ma non stordisce, dopo una saturazione di vetrine e vetrinette, corrispondenze e numeri unici di riviste, plaquettes letterarie, quadri e sculture.

Si esce con la sconsolata sensazione che il dadaismo più vero sia alla fine quello di un gruppo di mimi che nello spiazzo antistante il Centre Pompidou giocano con se stessi e con il pubblico.
LA MOSTRA
Dada
Parigi, Centre Pompidou. Fino al 9 gennaio. Nel 2006, alla National Gallery di Washington dal 19 febbraio al 14 maggio e al Museum of Modern Art di New York dal 16 giugno all’11 settembre.

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