Come mai, lei, Piero Craveri, storico liberale, si è cimentato con la biografia di Alcide De Gasperi, simbolo dell'unità politica dei cattolici?
«De Gasperi significa la continuità dello Stato unitario al di là della frattura fascista. Con il secondo dopoguerra i cattolici dovevano assumere in prima persona la guida del governo per cui De Gasperi diviene l'interprete di quella continuità insieme ai liberali e diversamente dagli azionisti e socialisti».
Qual è la sua interpretazione che si discosta dalla storiografia cattolica?
«Esiste una memorialistica cattolica (da Andreotti a Taviani, da Tupini a Rumor) che è aderente al pensiero di De Gasperi. C'è poi un'interpretazione storiografica cattolico-democratica che ha risentito fortemente del rapporto con il Pci nel dibattito della Repubblica. Il mio tentativo è stato di trovare un equilibrio».
Perché De Gasperi è un «grande uomo di Stato»?
«Ritengo De Gasperi il maggiore statista italiano dopo Camillo Cavour, a cui si deve il National Building. Il presidente cattolico ha ricomposto il Paese profondamente lacerato nel dopoguerra; ha realizzato la ricostruzione postbellica e il rilancio dell'economia verso traguardi neppure immaginabili; e lo ha ricondotto a soggetto rispettato nel consorzio delle nazioni libere. Se questo non è un uomo di Stato...».
Quali sono le differenze dei diversi De Gasperi presidenti del Consiglio?
«Il primo De Gasperi chiude l'esperienza dei Cln e avvia il Paese alla piena democrazia rappresentativa. Il 18 aprile è l'evento decisivo per rafforzare definitivamente la democrazia italiana. Quanto alla legge chiamata truffa, mi guardo bene dall'usare questo termine: nel 1953 De Gasperi si poneva il problema della riforma istituzionale che è uno degli appuntamenti mancati nell'intera storia della Repubblica».
Quale fu il rapporto con la Chiesa di Pio XII?
«Nello scontro che ebbe con Pio XII sulle elezioni romane del 1952 De Gasperi sarebbe stato disponibile ad obbedire al Pontefice dimettendosi da capo del partito cattolico. Nella veste di responsabile politico, però, non fu disposto a piegarsi alle direttive politiche del Vaticano. Dal momento della sconfitta dell'ipotesi del listone di destra per Roma, Pio XII rifiutò al presidente del Consiglio qualsiasi udienza in Vaticano».
E come la prese De Gasperi?
«Disse: Come cristiano accetto l'umiliazione benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio italiano e ministro degli Esteri, la dignità e l'autorità che rappresento e dalla quale non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m'impone di esprimere lo stupore...».
Perché qualcuno definisce il cattolico De Gasperi il più laico dei presidenti del Consiglio?
«Perché tenne fermi i principi della separazione tra lo Stato e la Chiesa, e della politica dalla religione, entrambi principi intrinseci alla sua esperienza di politico cattolico, pur rimanendo un fedele stretto alla Chiesa di Roma».
Quanto importante è il rapporto con i laici, Luigi Einaudi, Carlo Sforza e Giuseppe Saragat?
«Fu un rapporto decisivo per la politica economica ed estera perché nel centrismo degasperiano, liberali, repubblicani e socialdemocratici rappresentavano, insieme ai democristiani, le autentiche forze democratiche con la medesima visione dell'Occidente».
Quanto la sua origine di uomo di confine influenzò la fede europeista?
«Adenauer, De Gasperi e Schumann erano tutti uomini di frontiera e perciò portavano le ferite delle grandi guerre. Per loro l'Europa doveva avere un fondamento etico-politico».
E cosa fu il De Gasperi «americano» e «atlantico»?
«Comunità europea e comunità atlantica sono in De Gasperi inscindibili. Il momento decisivo del consolidamento euro-atlantico fu l'adesione al Patto atlantico nel 1949. De Gasperi e Sforza non solo si scontrarono con Togliatti e Nenni ma dovettero anche convincere buona parte dei leader democristiani (Gronchi, Dossetti...). Alla fine fu decisivo l'atteggiamento preso, pur se faticosamente, da Pio XII per fare fronte all'espansionismo sovietico e comunista».
Di che tipo erano i rapporti con Togliatti?
«Fu un rapporto tra avversari politici consapevoli di dovere collaborare per un tratto di strada. Però De Gasperi, con la Guerra Fredda, comprese che occorreva separare le responsabilità sulla base di visioni politiche e ideali diametralmente opposte. De Gasperi, da anticomunista rigoroso, costrinse fuori dal governo Togliatti il quale conservò una profonda acrimonia».
Che atteggiamento tenne De Gasperi verso la nuova generazione negli ultimi anni di vita?
«I vecchi popolari furono il sostegno principale della politica degasperiana, ma il leader sentì anche la necessità di gettare un ponte verso la generazione più giovane dei Taviani, Fanfani e Rumor. Alla fine De Gasperi si affidò a quello che a lui era sembrato il più capace, Amintore Fanfani: fu allora che insorsero profondi contrasti nella Dc, che lacerarono la natura del centrismo degasperiano che aveva guidato l'Italia nel dopoguerra».
Quali furono le innovazioni nella democrazia italiana rispetto al mondo liberale prefascista?
«Con De Gasperi si opera un mutamento fondamentale nella storia italiana con il definitivo passaggio dallo Stato liberale a una democrazia liberale stabilizzata. Quanto non era riuscito nel primo dopoguerra ed aveva aperto la strada al fascismo, accadde invece con De Gasperi: la democrazia italiana si aprì alle grandi masse organizzate in partiti e sindacati e ruppe definitivamente il vecchio cerchio elitario dell'Italia liberale».
C'è differenza tra la concezione della democrazia parlamentare di De Gasperi e la democrazia progressiva di Togliatti?
«L'unica democrazia concepibile è quella che aveva in mente De Gasperi, insieme ai cattolici e laici che lo sostennero. La democrazia progressiva, formula coniata da Togliatti, designa una transizione al socialismo secondo uno schema ideato nel 1936 da Dimitrov per la guerra di Spagna. La democrazia progressiva non designa in realtà un percorso democratico ma solo la via dell'egemonia comunista».
Anche lei si è innamorato di De Gasperi, come tutti i biografi dei grandi personaggi?
«Ho convissuto per quattro anni di ricerche con un grande statista e una classe dirigente degna di questo nome.
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