Occorre sempre Tim Burton (Mars Attacks!) perché un film non-cinese ristabilisca limportanza dei nonni, ancor più dei genitori. Ora lo fa con La fabbrica del cioccolato, tratto dal racconto di Roald Dahl (Salani), titolo dolce per contenuto amaro. Infatti questa è una fiaba dickensiana, diversa dalla prima versione cinematografica, Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato di Mel Stuart (1971).
Il meglio è linizio. Inquadrature dallalto della città innevata, della fabbrica, dei camion, della bicocca della famiglia, dove al grigiore dei colori smorzati corrisponde serenità, mentre al contrasto dei colori sgargianti corrisponderà angoscia. Sereni, ma affamati e infreddoliti si addossano lun laltro per il freddo quattro nonni, due genitori, un ragazzino, Charlie (Freddie Highmore). Vivono nella periferia daspetto britannico dunipotetica cittadina dove le buche delle lettere sono daspetto americano. Nella bicocca, gli affetti della tradizione arginano gli effetti della disoccupazione: la fabbrica di cioccolato - dove lavorava uno dei nonni (David Kelly) - ha chiuso; dopo quindici anni ha riaperto, ma sostituendo gli infidi operai locali con devoti nani terzomondisti (li interpreta tutti Deep Roy). Ma Charlie vince lambitissimo invito a visitare, col nonno ex cioccolatiere, la fabbrica, unendosi ad altri quattro coetanei, due tirannici, due ipercompetitivi, e relativi genitori.
Il padrone, Willy Wonka (Johnny Depp), ha il denaro, che manca a Charlie; ma Charlie ha la famiglia, che manca a Willy. Lha lasciata per il complesso rapporto col padre dentista (Christopher Lee), che gli imponeva un vistoso apparecchio dentario e gli vietava i dolci. Willy è così cresciuto con denti perfetti, senza carie ma anche senza sorriso. Insomma, fra Charlie e Willy si profila complementarità ed estraneità rispetto agli altri ragazzini.
Fra evocazioni dei film con Ester Williams, di 2001.
LA FABBRICA DI CIOCCOLATO di Tim Burton (Usa/Gb 2005), con Johnny Depp, Deep Roy, 114 minuti
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