Povero Gabriele. Povero piccolo vecchio, prigioniero in un Vittoriale che lui stesso definisce lugubre, gabbia orientaleggiante di ricordi fulgidi e di testarde convinzioni dessere ancora vigoroso, nel corpo (questo concediamoglielo, sia pur tra mille riserve) e nella creazione letteraria (e questo proprio no). Anni da recluso, in febbrile attesa dellultima (chissà!) sua amante, Nietta Cassinari, puledra padovana moglie di un antiquario, che lui cavalca pensando dessere ancora «un semidio non indegno». Mai distante dallo sconfinato amore per se stesso. Un amore che trasforma le donne in specchi su cui gettare spavaldamente la propria immagine, sia pur avvilita dal tempo.
È il tramonto letterario di Gabriele DAnnunzio, riassunto nelle lettere (dal 1921 al 1938) - finora inedite - spedite a Nietta cui offre quelle «delicatezze del piacere» che provengono non solo dalla sua fame sessuale, ma anche dalla droga. E lei gliela manda, obbedendo alla sua raccomandazione sia sempre «ben confezionata» (i controlli postali e polizieschi cerano già). Giocando sullambiguità del termine «mattonelle» - le ceramiche persiane che servivano a rivestire il suo Bagno Blu e quelle di cocaina - Grabriele che classicamente si firmava anche «Ariel» continuava a chiedere la miracolosa stampella contro «la turpe vecchiezza» e il rallentamento ormonale. Era nato nel 1863: i conti son facili a fare, e pietosi visto che Nietta, «la più mutevole delle streghe», correva nei suoi vigorosi pascoli di trentenne. Quarantanni di differenza, quindi. La droga, la sterilità letteraria, ladorazione di una donna, ma non in quanto unica donna del cuore, le lamentazioni sulla salute, emergono dalle lettere del Vate che la casa editrice Salerno manda in libreria tra una quindicina di giorni (Lettere a Nietta negli anni del tramonto, ottimamente curate da Vito Salierno). Un epistolario che sostituisce larte della prosa e della poesia dellinquieto pescarese, spesso propaggine eccellente di una grande effervescenza linguistica: e sta qui, anche se lui non ci contava, lultima sua gioventù.
Gabriele continua a reclamare le «tavolette» di cocaina. Si vuole abbeverare alla fontana degli artifici chimici per insaldare la convinzione dessere ancora nel mondo come uomo e non come fantasma. Lettere anche a se stesso pur cambiando il destinatario. Era infatti sua abitudine, cone annota Salierno, inviare epistole «scritte nel medesimo giorno a interlocutrici diverse, pressoché identiche non solo nel contenuto ma anche nella forma». Nessun giudizio morale, per carità: solo il prendere atto di un modo dessere artista. Orge, perpetuo sfilare di donne nel suo mausoleo, vizi, devianze, gusto di beffare qualsiasi confine. A tutto questo Nietta si abbandonò, scoprendosi selvaggia e libera.
DAnnunzio vive e canta le donne. È spavaldo: «Ho violato una verginità per sentire il voluttuoso terrore di unanima sconosciuta a me ed a se stessa; mi sono accostato allanima giovenile per cogliere il risveglio subitaneo della sensualità, della passione e della morte». Già, la morte: una sorta di avanguardismo militar-erotico, occhieggiante da ogni dove, presente anche tra le notturne voluttà. Ci sono «gli avori» di droga, una gran spinta. Ma scrive il Vate che sono le donne la vera cocaina dellanima: «Non le amo se non per quel che vi è di animale in esse... talvolta so renderle divine, nel senso che la bestia è una forma del divino, anzi il più misterioso aspetto del divino». Con Nietta continua il suo paganesimo di sensi e di mente. Il vecchio amatore sbraita contro «la Natura porca» che lo rende un «poaro vecio».
Tra un acciacco e laltro accoglie nelle sue stanze buie la donna che ha «le mani di vogatrice pigra», e a lei racconta gli accessi di «epilessia geniale», ripetendo di essere il miglior scrittore italiano di tutti. Fa fatica a pagare le «tavolette». Arriva a chiedere alla cuoca un prestito di 162 lire, sindigna per lottusità bancaria. Ma tra rancori e orgogli cè sempre la voglia di femmina: «Nietta, dormi, con la mano, con la mia mano, su la tua rosa fosca fra le cosce di madreperla». In altre occasioni si fa lagnoso e si firma «il ramollì». Di fronte a lei che si vanta di «essere tornata libera come laria» gli si aguzza la vanteria fino a ostentare, piccolo orbo artritico, «muscoli dacciaio».
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