E l’Europa balla sul Titanic

Negli anni 50 e 60, l’economia italiana cresceva del 6 (sei) per cento all’anno. Nei duri anni 70 del 3-4 per cento. L’italiano medio negli anni 50 si portava a casa un quarto in meno del reddito medio di un europeo e solo il 35 per cento di quello di un americano. In trenta anni il miracolo economico ha ridotto le differenze: oggi un italiano ha entrate più o meno simili a quelle di francesi e tedeschi, ma ancora un po’ inferiori a un americano. Cosa sta succedendo oggi? È piuttosto semplice nella sua drammaticità: italiani, francesi e tedeschi brindano e si divertono sulla tolda del Titanic. Chiaro, no? Mentre Cina e India crescono ai nostri ritmi degli anni 50 e gli Stati Uniti continuano a macinare crescita del 3 per cento annuo, noi scendiamo in piazza. Chiacchieriamo, discettiamo sulla qualità del lavoro più che sulla qualità dei prodotti. Chiediamo astrattamente più aiuti da parte dello Stato per confrontarci con sistemi che hanno ridotto la presenza dello Stato in economia ai minimi termini. I ragazzi parigini si compiacciono per un nuovo ’68 e protestano contro il governo che ha intenzione di mettere un filo di flessibilità nei loro primi contratti di assunzione. Nel frattempo in Francia, un ragazzo under 26 su due non ha uno straccio di lavoro. In Germania hanno protestato, come nel resto dell’Europa, per l’introduzione di una direttiva liberalizzatrice delle professioni, e si mantengono stretto il sistema dei Meister: idraulici, elettricisti, impiantisti, ottici, parrucchieri, meccanici devono passare una sorta di esame di Stato che li abiliti alla professione. E che dunque crea una stratificazione e barriere all’entrata formidabili. Il loro sindacato metalmeccanico, solo un paio di anni fa, si è battuto sino alla sconfitta per l’introduzione anche nella Germania dell’Est delle 35 ore per tutti. In Italia, che pure ha fatto riforme importanti nella flessibilità del lavoro, siamo un passo avanti: già lamentiamo «la precarizzazione della società». Bastava sentire l’ex sindacalista ed oggi politico della Margherita, Franco Marini, nei giorni scorsi e la sua denuncia accorata verso un mondo del lavoro fatto da milioni di precari. Lo scenario era quello di una società devastata, senza speranze. O basta vedere, per una volta, a casa nostra: giornalisti che continuano a scioperare per mantenere tra l’altro il privilegio incredibile di scatti di anzianità automatici e ravvicinati o che fanno finta di non vedere il diffuso e illegale precariato giornalistico e non ne vogliono una corretta regolazione per legge.
Insomma le tre economie più importanti dell’Europa ballano, e quanto, sul Titanic. Guardano con gli occhi del passato il futuro che aspetta. Si preoccupano dei lavori precari e non capiscono che nei prossimi decenni si rischia di non produrre più da noi.
La metafora dei giornali è forse la più esemplificativa: ma è estendibile ai privilegi dei lavoratori assistiti di mezza Europa. I corporativi giornalisti italiani, gli studenti delle università che contano di Parigi, gli autonomi delle professioni protette tedesche, non si rendono ancora conto che il loro passato è morto e sepolto. Che la sfida è stata capita, e bene, financo dai nostri vicini di casa dell’Europa dell’Est. E che la questione non riguarda soltanto il «dumping sociale» fatto da concorrenza senza regole dei mercati asiatici, ma anche dalla voglia di rinascita dell’ex blocco comunista e dalla straordinaria mobilità sociale che ancora dimostra l’America del Nord. È grave che la politica alimenti ancora sogni che non sono realizzabili.

E che accondiscenda e alimenti il comprensibile timore di una generazione che dovrà fare i conti con un ambiente competitivo del tutto diverso dal passato. La festa è finita, disse una volta l’avvocato Agnelli. E adesso ci siamo trangugiati anche la torta.

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