Chi produce cultura nel nostro Paese perlopiù diffida degli imprenditori. Questo vale per gli artisti, così come per gli scrittori e, più in generale, di donne e uomini che frequentano le lettere. Si tratta di un rapporto mai nato. Di un rispetto e di una stima mai sbocciati. Per la semplice ragione che la cultura in Italia ha sempre tirato da una parte sola. In modo particolare dal secondo dopoguerra. Colpevolmente chi aveva vinto le prime elezioni libere del 1948 nella sostanza decideva di non occuparsi della cultura, del sistema educativo e formativo. E così gli avversari, gli appartenenti alla cosiddetta sinistra massimalista, ebbero gioco facile nel mettere in atto la famosa egemonia gramsciana.
In quella visione, fortemente divisiva, l'imprenditore era il soggetto della società che andava raccontato con argomenti puramente ideologici, con un ricorso sistematico all'aggettivazione per screditarlo sempre e comunque. Come, in buona sostanza, un personaggio discutibile impegnato quotidianamente ad accumulare denari a scapito delle sue maestranze. Una narrazione a senso unico che non ha fatto del bene al nostro Paese.
L'egemonia è sempre un metodo che non porta a nulla di buono. Costruisce una mentalità occupando tutti gli spazi del sapere (fin dai banchi di scuola) e mettendo in disparte le poche voci che provano a dire qualcosa di diverso. La cultura italiana novecentesca è vissuta di questo clima. Come si suol dire: ha dato la linea. L'ingresso nel XXI secolo non ha determinato novità sostanziali. Il veto, magari ora più sottotraccia, permane. L'imprenditore, quando va bene, viene tollerato dalla narrazione dominante.
Quando si comincerà a scrivere con obiettività che le imprese hanno contribuito in misura decisiva a risollevare l'Italia dopo la Seconda Guerra
Mondiale? E che oggi sono in prima linea nell'opera di costruire bene comune? Questo non certo per affermare un'egemonia di altro segno. Ma per rendere un servizio alla verità delle cose. A quando una cultura per davvero plurale?
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