Rcs e Telecom, banche sotto accusa

Il rischio di salvataggi societari senza tutelare l'interesse del mercato. Prima le critiche alla proposta di H3g. Poi l'ira di Della Valle sul ruolo degli istituti nell'aumento del "Corriere"

La lettera scritta da Diego Della Valle al cda di Rcs fa clamore perché arriva là dove, di solito, gli azionisti di minoranza non possono. Cioè a far rumore di fronte a un'operazione che non è di mercato. Allo stesso tempo, però, definire il patron della Tod's un piccolo azionista è un po' troppo: si tratta di un signore con un patrimonio personale stimato intorno al miliardo di euro, anche se con il suo 8,7% di Rcs sta fuori sia dal patto di sindacato dei grandi soci, sia dal cda (e in entrambi i casi per sua scelta). Quindi qualcuno potrebbe obiettare che «chi è causa del suo mal pianga se stesso»: se Della Valle, l'estate scorsa, ha investito una dozzina di milioni in un gruppo già in condizioni economiche e finanziarie disastrose, sapeva bene il rischio che correva. Tuttavia la sua denuncia, che ha trovato qualche sostenitore anche all'interno del cda e del patto (le dimissioni dei Merloni), accende un faro su quello che sta accadendo al capitalismo nazionale: la malattia di alcuni gruppi gestiti per anni secondo logiche «di sistema», ma comunque quotati in Borsa, rischia di essere curata salvaguardando in primis gli interessi delle banche e trascurando se non addirittura penalizzando quelli del mercato e delle stesse società interessate.

È esattamente quello che sostiene Della Valle che, nel caso di Rcs, accusa le banche finanziatrici del gruppo (Mediobanca, Intesa, Ubi, Unicredit, Bnl e Pop Milano) di aver orchestrato un piano di rilancio a loro immagine e somiglianza: hanno studiato un aumento di capitale, estremamente diluitivo, di almeno 400 milioni, 200 dei quali andranno immediatamente utilizzati per rimborsare i crediti. Di queste banche, tra l'altro, Mediobanca e Intesa sono anche azioniste nel patto di sindacato Rcs e da sole hanno il 18,6% del capitale: senza la loro adesione sarebbe stato difficile chiudere l'operazione che richiedeva almeno il 50% di sottoscrizione dei soci per far scattare la garanzia del consorzio sull'inoptato. E chi partecipa al consorzio? Le stesse banche creditrici. E il cerchio si chiude. Secondo Della Valle si tratta di un rientro dei crediti bancari finanziato con i soldi i soci, a condizioni diluitive, e ben poco utile al rilancio della società. Mentre la strada maestra sarebbe stata quella di rinunciare a parte del debito e/o trasformarne un'altra in equity: così sì, dice Mr Tod's, si aiutava il «Corriere». Un'operazione di questo tipo è stata fatta, un anno fa, per Fonsai. Ma pure in quel caso, le banche hanno avuto un trattamento particolare quando, nell'integrazione con Unipol, è stata salvata la holding Premafin, a sua volta indebitata.

Il caso Rcs piomba sul mercato nelle stesse ore in cui si discute la sorte di Telecom, dove alcune delle stesse banche (Mediobanca e Intesa, questa volta azioniste) potrebbero avvantaggiarsi di un'offerta (quella dei cinesi di H3g) che non riconoscerà un'euro al mercato. E qui si parla di mezzo milione di azionisti, non dei pochi affezionati di Rcs.

Ieri è stata annunciata un'operazione, quella dell'ingresso di Rosneft in Saras, nella quale una parte delle azioni verranno acquistate attraverso un'Opa parziale a riparto: questo potrebbe essere lo schema da applicare a Telecom se si volesse essere «market friendly». Vedremo cosa verrà deciso, anche in questo caso, nelle prossime settimane.

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