Il futuro dell’industria del risparmio non potrà fare a meno della consulenza finanziaria indipendente. La Mifid 1 ha costruito un sistema normativo che disciplina la trasparenza dei comportamenti degli intermediari, differenziando il momento della decisione dell’investimento da quello dell’esecuzione dell’ordine. Ma spesso si determina una confusione di ruoli e le banche si limitano a una consulenza di base realizzata con la profilatura del cliente e non completamente priva del rischio di un conflitto d’interesse con i prodotti d’investimento che vengono proposti e collocati. La Mifid 2 dovrebbe far fare un salto di qualità riconoscendo il valore aggiunto della consulenza indipendente che deve anche essere capace di farsi riconoscere una remunerazione da parte del cliente sganciata dalle commissioni “nascoste” nei prodotti. Ma il mercato non è ancora pronto per questo riconoscimento e la consulenza indipendente, ancora in attesa dell’albo previsto dalla legge, deve ancora conquistarsi un ruolo da protagonista. Sono queste le considerazioni emerse nella tavola rotonda su Il presente e il futuro della consulenza finanziaria, organizzata da BancaFinanza. Alla tavola, moderata dal direttore di BancaFinanza e de Il giornale delle Assicurazioni, Angela Maria Scullica e da Achille Perego, caposervizio di QN, hanno partecipato: Alberto Cuccu, chief operating officer di Object Way, Zeno D’Acquarone, vicepresidente di Gwa sim, Claudia Petracca, responsabile legale di Assosim, Massimo Scolari, segretario generale di Ascosim e membro del Consultative working group dell’Esma, Dario Luca Spitale, presidente e amministratore delegato di Gaa sim, Paolo Tirabassi, membro del consiglio direttivo di Nafop, Maurizio Esentato, amministratore delegato di Cassis Capital e Corrado Cassar Scalia, director of sales&marketing di Morningstar Italy.
Domanda. Qual è oggi la situazione della consulenza finanziaria indipendente e quali sono i possibili sviluppi del mercato?
Scolari. Partirei dal quadro normativo. Prima della Mifid 1 l’attività di consulenza era esercitata da qualsiasi soggetto oppure era considerata un’attività accessoria. Nell’ambito delle decisioni di investimento, la regolamentazione si occupava solo della fase esecutiva. Il controllo era finalizzato alla protezione dell’investitore nell’ambito dell’efficacia e alla correttezza del servizio offerto nell’esecuzione dell’ordine; veniva trascurata invece la formazione della decisione di investimento del risparmiatore, che rappresenta la parte più importante di una scelta di investimento. Con la Mifid il regolatore europeo ha fatto un grande passo avanti. Ribadisce l’attenzione sulla fase esecutiva sottolineando l’importanza della decisione finale ma afferma che è ancora più rilevante capire come si forma questa scelta. Siamo transitati quindi verso un sistema in cui la consulenza e i relativi consigli di investimento, sono diventati un’attività regolamentata. Detto questo, che cosa è successo nel nostro sistema finanziario con l’applicazione della Mifid 1? Gli intermediari, e in particolare le banche, di fronte al fatto che l’attività di supporto alla scelta d’investimento inevitabilmente rientrava nella nuova regolamentazione, hanno dovuto disciplinare le modalità con cui abbinare ai servizi esecutivi d’investimento quelli di consulenza, rispettando le relative regole di condotta, garantendo principalmente la valutazione di adeguatezza della raccomandazione di investimento. Nelle scorse settimane la Consob ha pubblicato per la prima volta un bollettino statistico che fotografa i cambiamenti imposti dalla nuova normativa: sull’ammontare dei depositi amministrati dalle banche italiane, circa 1.100 miliardi di euro, più della metà (il 57%) è abbinato a un servizio di consulenza. Quindi le banche, rispettando la Mifid, hanno offerto ai loro clienti l’opportunità di sottoporre le raccomandazioni di investimento a un controllo di adeguatezza. Si parla, in questo caso, di una consulenza di base non remunerata. Ma nel settore finanziario non esiste nulla di gratuito e il cliente comunque paga sempre qualcosa anche se non sa bene quanto. Questa consulenza viene remunerata infatti attraverso altri servizi finanziari, ad esempio tramite le commissioni di collocamento dei prodotti. Il grande progresso rappresentato dalla Mifid 1, in Europa e anche in Italia, al di là dei problemi ancora aperti sui possibili conflitti d’interesse tra chi, l’operatore titoli allo sportello, sempre con la stessa giacca prima fa il consulente e poi colloca prodotti della sua stessa banca, purtroppo era rimasto a metà. Voglio dire che la trasformazione del rapporto banca-cliente non si era compiuta in modo completo consentendo, come dovrebbe essere, la totale trasparenza dei sistemi di remunerazione dell’attività di consulenza. Con la Mifid 2 si è cercato di completare questo percorso introducendo una modalità di consulenza chiamata indipendente e una maggiore trasparenza nelle modalità di remunerazione di questa attività, vietando per esempio di percepire commissioni di retrocessione.
Tirabassi. Concordo sull’importanza dell’evoluzione normativa introdotta dalla Mifid. In particolare l’aver fatto emergere la consulenza come attività indipendente. Il processo di formazione della decisione di investimento deve essere corretto, guidato da criteri adeguati all’investitore, frutto di un approccio sistematico basato sugli obiettivi temporali e sull’analisi delle esigenze del risparmiatore garantendo così l’adeguatezza delle scelte. La consulenza, come è già avvenuto nei paesi anglosassoni, può quindi diventare indipendente. In questo caso il consulente viene remunerato direttamente dall’investitore per il servizio che gli è stato fornito, un supporto professionale privo di conflitti di interessi. È giusto quindi attendersi e pretendere che il consiglio di investimento sia fornito indipendentemente dal successivo interesse del collocatore. Oggi la presenza sul mercato di operatori che esercitano solo l’attività di consulenza finanziaria è il frutto dell’applicazione della Mifid. Un frutto ancora acerbo, perché, mentre per le sim la consulenza finanziaria è ormai entrata in un regime ordinario, per le persone fisiche identificate come soggetti autorizzati dal quadro normativo a svolgere attività di consulenza manca ancora l’ultimo anello: la costituzione dell’albo dei consulenti, prevista dalla legge. La mancanza dell’albo rappresenta un vulnus nel quadro normativo ma anche nella libertà di impresa e nella trasparenza del mercato. L’attuale situazione di prorogatio fa sì che il consulente come persona fisica o in forma societaria di srl sia ancora una categoria molto ristretta, mentre l’allargamento della platea degli operatori avrebbe effetti positivi per il mercato. In primo luogo farebbe emergere di più il tema del prezzo da pagare per la consulenza in base al tipo di offerta, di organizzazione e di erogazione del servizio premiando le formule più efficienti e desiderate dagli investitori. In secondo luogo si darebbe un contributo di efficienza e di qualità per il mercato. Il consulente che non ha conflitti di interesse, infatti, svolge un ruolo di tutela per il risparmiatore consigliato a scegliere l’intermediario e il prodotto finanziario più convenienti.
D. Perché è così in ritardo la costituzione dell’albo dei consulenti indipendenti?
Tirabassi. L’albo, secondo quanto prevede la legge, è un organismo di diritto pubblico, a carico quindi della pubblica fiscalità. Se si possono capire i problemi legati alla difficile situazione delle finanze statali, credo sia miope limitarsi al problema del costo dell’albo. Tra l’altro stiamo parlando - secondo uno studio Consob - di un paio di milioni di euro, semplicemente a titolo di anticipazione, perché sarebbero recuperati dalla gestione dell’Organismo. Una cifra esigua per il bilancio pubblico a fronte degli enormi vantaggi, a cominciare dalla trasparenza del mercato e dalla crescita della cultura finanziaria. Se negli anni scorsi ci fosse stata una maggiore presenza di consulenti indipendenti si sarebbero verificati molti meno scandali finanziari, dai bond argentini a quelli della Parmalat. Secondo una stima prudente della Consob, nei primi anni l’albo potrebbe avere tra i 3 e i 5 mila iscritti. E potrebbe accogliere una parte degli esuberi del sistema bancario di più alta professionalità, offrendo il passaggio alla consulenza indipendente..
Petracca. Anche in assenza dell’albo, per il quale si ritiene comunque auspicabile una nascita in tempi brevi, esiste un potenziale grande sviluppo dei servizi di consulenza prestati dagli intermediari abilitati. Con specifico riferimento alla consulenza in materia finanziaria abbiamo assistito, nel corso del 2012, a una progressiva sensibilizzazione degli intermediari in ordine all’importanza degli aspetti organizzativi interni e contrattuali e, in particolar modo, all’importanza delle tecniche di rilevazione del profilo di rischio della clientela. Questa rinnovata sensibilità non nasce da mutamenti del contesto normativo di riferimento, che resta sempre quello della Mifid, ma è derivato, piuttosto, dalla pubblicazione nel corso del 2012 di due importanti documenti i quali, ancorché di carattere non normativo, presentano un contenuto interpretativo estremamente importante. Mi riferisco, in particolare, alla pubblicazione degli Orientamenti Esma del luglio 2012 in tema di valutazione dell’adeguatezza e alla pubblicazione da parte della Consob, pressoché nello stesso periodo, di un discussion paper, nell’ambito del quale l’autorità ha evidenziato rilevanti criticità dei questionari utilizzati dagli intermediari per la profilatura della clientela. Tanto gli orientamenti Esma quanto il documento Consob (per l’implicita moral suasion), pur non introducendo novità legislative, sono estremamente importanti perché hanno rappresentato un’occasione di stimolo per gli intermediari a procedere a una revisione critica delle procedure interne e a verificare tutti i passaggi, pratici e logici, sottesi alla valutazione di adeguatezza. Al tempo stesso, per chi ne ha saputo cogliere l’opportunità, hanno rappresentato un’utile occasione anche per rivedere le politiche interne di gestione dei conflitti di interesse. E qui torna il tema della consulenza indipendente. Come noto, la normativa vigente non impone agli intermediari che prestino il servizio di consulenza di essere indipendenti. È necessario però che essi adottino misure di gestione dei conflitti tali da assicurare il costante perseguimento del miglior interesse del cliente. La mancanza di imparzialità deve, quindi, essere accompagnata dalla predisposizione di un articolato sistema di tutele basato sul rispetto di precise regole di condotta imposte all’intermediario, e soprattutto, sull’obbligo di comunicare preventivamente al cliente il perimetro della consulenza fornita, di adottare efficaci politiche di gestione dei conflitti di interessi nonché di sottoporre qualunque consiglio di investimento allo screening di adeguatezza. La consulenza, soprattutto se indipendente e quindi scevra da possibili distorsioni valutative, può offrire un grande valore aggiunto al risparmiatore retail e agevolare una più efficiente allocazione dei suoi risparmi.
Cassar Scalia Come Morningstar rileviamo il passaggio dalla Mifid 1 a una Mifid 1.5... Voglio dire che dopo un’applicazione iniziale della nuova normativa guidata più dagli aspetti legali, quindi dall’adeguamento delle procedure anche come adempimento per limitare i rischi dell’intermediario verso l’investitore, stiamo passando a un’interpretazione della Mifid come opportunità di cambiamento dei servizi finanziari. Con un nuovo focus sul cliente e sui suoi obiettivi attesi. Per questo prima di riflettere sull’indipendenza o meno della consulenza, dobbiamo chiederci quali sono i contenuti, i driver che guidano il servizio di consulenza sia per il cliente sia per l’intermediario. Quali sono le professionalità e gli strumenti da mettere a disposizione per erogare al meglio questo servizio e farlo percepire dal mercato e dalla clientela. È questo il vera tema ed è da qui che si deve partire per poi definire diversi percorsi di regolamentazione della consulenza e della sua remunerazione che possono anche riproporre l’esperienza degli Stati Uniti dove convivono tre modelli: i broker, gli advisor legati alle grandi banche che danno una consulenza fee based ma anche i consulenti indipendenti..
D’Acquarone. Credo che esista un serio problema sul tema del pricing del servizio di consulenza ovvero di distorsione sul mercato del pricing che si traduce nel mancato riconoscimento del valore aggiunto professionale contenuto nella consulenza. Il risparmio gestito è un mondo ad altissimo contenuto professionale. Una filiera in cui tutti i processi e le componenti (gestori, analisti, banche dati, software, ecc.) comportano costi. E avendo strutture gravate dai costi, come per qualsiasi azienda, per stare in piedi questo business deve avere un minimo pricing. A maggior ragione la consulenza che è molto “time consuming” e personalizzata. Il mercato però nasconde e non riconosce a questo servizio il suo valore aggiunto. Noi facciamo consulenza da 12 anni e siamo convinti che chi vuole questo servizio debba pagarlo per quello che vale. E con lo 0,10% o lo 0,20% di commissione non si vive a meno che non si faccia anche un altro mestiere, quello di collocare prodotti o altri servizi, quali la negoziazione o custodia, recuperando così marginalità da altre fonti, ma così facendo sfalsando il servizio di advisory e di fatto anche la concorrenza con gli operatori che offrono alla propria clientela solo la consulenza. Oltre al tema della remunerazione c’è anche quello dell’operatività. Oggi, con mercati così volatili e complessi, è finita la vecchia impostazione del buy and hold, anche su asset class dove storicamente si era sempre fatto. La consulenza ha effettivamente a mio giudizio dei limiti: quanti clienti si possono gestire per muoversi su mercati così rapidi e che richiedono un’operatività sempre più intensa.? La compartecipazione, la condivisione nelle scelte di investimento è frutto anche del fatto che ci sono state, tra virgolette, distorsioni nell’industria del risparmio. La consulenza è nata una quindicina di anni fa perché, diciamolo, il mondo del Risparmio gestito non serviva al meglio i clienti. Aveva perso un po’ l’etica della professione preso dall’ingordigia commissionale. Oggi quei margini non ci sono più, si sono fortemente ridotti e così si smontano le gestioni e l’investitore, abbandonato al risparmio amministrato, ha bisogno di consulenza più che mai, ma da una parte gli operatori devono offrirla al giusto prezzo e i clienti devono imparare a riconoscerla in quanto servizio professionale e dunque pagarla direttamente.
Spitale. Non ho dubbi sul fatto che le statistiche Consob, che sono state citate, siano corrette. Ma la realtà è diversa perché esistono due forme di consulenza e questo crea confusione sul mercato. La prima consulenza è quella che si limita a profilare il cliente, rispettando le norme Mifid. Risponde ai criteri di adeguatezza: chiede quanti anni ha il cliente, il numero dei figli, la professione, il reddito disponibile, gli obiettivi d’investimento. Ma siamo lontani anni luce da una vera e propria pianificazione finanziaria. Si utilizzano piattaforme erroneamente considerate dal cliente come un servizio di consulenza ma in realtà sono solo dei grafici. Si applicano commissioni che vanno dallo 0,20% al 2,8% ma nessuno dice al cliente quello che si aspetta. Lo mette, per esempio in guardia, sul fatto che i mercati stanno volgendo al peggio e sia il momento di uscire o di ridurre l’investimento. E questo comportamento crea una profonda disaffezione. Purtroppo, e mi riferisco soprattutto alle piccole e medie realtà, mancano i supporti a partire dall’ufficio studi. Per quanto riguarda invece l’albo dei consulenti non ha nulla a che fare con l’esame da promotore finanziario. La preparazione a questo esame comporta l’apprendimento di conoscenze molto utili per la professione che si sarà chiamati a svolgere ma non si riceve il know how per rispondere al cliente da consulente. Quando ci sarà l’albo, ritardato dalla Consob e dalle autorità di vigilanza, avremo tantissimi consulenti finanziari con la preparazione da promotore finanziario. Passando al tema delle grandi banche che collocano prodotti finanziari con servizi di consulenza, ritengo che il focus sul conflitto di interessi sia corretto. C’è l’esigenza di un continuo monitoraggio del profilo del rischio-cliente sulla base dei prodotti che ha in portafogli ma non si può rispondere a questa esigenza solo con le piattaforme di profilatura del cliente. La consulenza ci permette di ottenere risultati qualitativamente molto diversi. Purtroppo si parla troppo di consulenza e non sempre in modo corretto. E un po’ temo anche un albo con 5 mila consulenti. La realtà è che in dieci anni la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane si è ridotta dell’8% e l’industria del risparmio ha distrutto 90 miliardi di euro. Quindi la grande sfida che abbiamo davanti non è quella di creare nuovi prodotti ma di riconquistare la fiducia dei risparmiatori..
D’Acquarone. Ma come si può riconquistare la fiducia se io raccomando di investire in un fondo azionario e poi il mio cliente scopre che se lo acquista in una banca paga il 5% di commissione di ingresso mentre in un’altra zero: una follia del mercato! Non solo, oltre alla enorme differenza di costi, c’è anche il problema che non tutti i prodotti finanziari sono accessibili in tutte le banche. E così, o il tuo cliente rinuncia a investire in quello strumento o deve spostare gli asset presso intermediari che permettano di comprarlo.
Esentato. La mia impressione è che si presti troppa attenzione alle procedure regolamentari e molto meno al contenuto della consulenza e ai modelli organizzativi. E non vedo modelli focalizzati solo sulla consulenza. Fare consulenza significa avere una grande conoscenza dei mercati. Una volta le grandi banche si avvalevano di importanti uffici studi, ma oggi chi li ha più? Invece abbiamo a che fare con investitori che ti chiedono che impatto può avere la crisi di Cipro o la tensione militare in Nord Corea sul Btp. Mi chiedo: come fa il consulente unico iscritto all’Albo a rispondere? Forse ci siamo dimenticati che cosa significa la nostra professione. Con 120 mila euro posso aprire una Sim e pagarmi l’ufficio per due anni ma dov’è l’organizzazione che mi consente di conoscere i mercati? Quello che però mi incoraggia è che, grazie al cielo, esiste anche la figura dell’imprenditore. Vorrei per questo fare l’esempio delle tlc, divise tra rete e servizi. Si è sempre pensato che Telecom fosse un monolite inattaccabile. In realtà non è stato così e il deprezzamento del titolo in Borsa (valeva 2 euro, oggi poco più di un quarto) è la conseguenza della divisione tra rete e servizi e dell’assenza di contenuti. Quelli che hanno Apple o Samsung. La stessa cosa può essere riproposta per il settore finanziario. Dopo la crisi le banche avrebbero dovuto ritornare a porre la loro attenzione sul cliente scoprendo la consulenza. In realtà non lo hanno fatto. Sia le grandi banche sia le banche di credito cooperativo che hanno varato un programma di consulenza rimasto in gestazione dal 2009. Il loro problema era ed è la piattaforma informatica. Le procedure informatiche possono aiutarmi a gestire il modello di consulenza, ma non sono il modello. Infine vorrei tornare al tema della condivisione delle scelte tra consulente e cliente. Un approccio che non condivido, in quanto mi rivolgo a un esperto perché mi orienti in quanto ritengo di non essere in grado di affrontare autonomamente la problematica che ho di fronte. Se ho la carie e vado dal dentista è lui che decide la terapia, non sono io che partecipo alla scelta.
D. Quanto la tecnologia può aiutare la consulenza?
Cuccu. Concordo pienamente con Esentato: le procedure non sono un modello organizzativo. Questa distinzione, tuttavia, non è ancora sufficientemente chiara al cliente. Se mancano i contenuti, se non c’è l’ufficio studi, si presuppone che la piattaforma software possa supplirvi. In realtà non è così. La piattaforma aiuta e rende più efficienti contesti organizzativi complessi e garantisce che il metodo di vendita sia coerente sulla rete dei consulenti ma non può dire quale sia, ad esempio, l’impatto sui mercati delle tensioni militari in Corea. La Mifid 1 ha rappresentato un approccio prevalentemente legale. E in quanto tale, più facilmente ottimizzabile con le piattaforme software. I contenuti, invece, sono una realtà più complessa da trasmettere alla rete che fa consulenza. Non si può pretendere che abilitando un software si crei un modello organizzativo. Le cose, però, stanno cambiando in senso positivo. La consulenza sta evolvendo verso un approccio che segue il percorso del cliente e non lo assiste solo nel momento dell’ordine di acquisto di un prodotto finanziario. Tuttavia, i modelli organizzativi degli operatori finanziari non garantiscono ancora la possibilità di raccogliere informazioni approfondite sugli stili e le esigenze di investimento dei clienti, specie se il momento dedicato alla consulenza si riduce a pochi minuti e non viene aggiornato su base regolare. Noi, come produttori, sappiamo adattare le nostre soluzioni per supportare i gestori in base al modello organizzativo che adottano, sia che si tratti di advisory approfondite, sia che si debba elaborare il profilo d’investimento in tre clic. In questo modo, tuttavia, il mercato non sempre riesce a identificare in maniera chiara i prodotti finanziari più idonei in base alla tipologia di investitore. In queste occasioni si possono verificare, soprattutto nella consulenza mass market, situazioni di appiattimento delle forme di advisory, con la conseguente difficoltà di trovare un giusto equilibrio nel segmentare la consulenza per il mass market da quella per la clientela evoluta.
D. Come si può remunerare il servizio di consulenza?
Tirabassi. Ci si chiede: c’è una clientela disposta a pagare per una consulenza di questo livello? La risposta è sì, anche se si tratta ancora di una élite. Ed è questa clientela disposta anche a pagare sufficientemente questo servizio? Io dico di sì e questo mette chi offre questa consulenza nelle condizioni di avere le risorse per organizzare un servizio di qualità.
Cassar Scalia. Se non definiamo il livello e la tipologia della consulenza rischiamo di fare confusione tra una piattaforma e la professionalità e il know how del consulente. Lo strumento serve a facilitare il trasferimento delle conoscenze sul cliente e a ridurre l’impegno del consulente nelle attività a
basso valore aggiunto, come la reportistica. Ma la domanda principale che ci si deve porre è sul ruolo del consulente. Chi e il consulente? Colui che sceglie i migliori prodotti, ha accesso alle informazioni, dispone di capacità di analisi e trova la migliore asset allocation? Probabilmente sì. Ma è anche colui che parte dall’esigenza del cliente e organizza il suo portafogli in funzione dei flussi di cassa, delle esigenze assicurative- previdenziali e personali. Tanto che un recente studio americano ha dimostrato che questo valore aggiunto corrisponde a un 1,85%-2,15% di rendimento annuo sul portafogli del cliente.
Petracca. Con riferimento alla remunerazione occorre tenere presenti due aspetti. Uno di carattere formale, disciplinato in sede contrattuale, riguarda i termini e le modalità di calcolo della commissione richiesta dall’intermediario alla propria clientela per lo svolgimento dell’attività di consulenza. L’altro, di carattere più sostanziale, interessa il modo con cui il cliente percepisce il valore aggiunto della consulenza e alla sua conseguente disponibilità a riconoscerlo come servizio autonomamente remunerabile, dunque non gratuito e non implicito nella prestazione di altri servizi di investimento. Ed è su questo secondo con ogni probabilità, che è necessario incoraggiare il mercato a fare dei passi avanti, che richiedono, a mio avviso, in primo luogo un avanzamento culturale sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta. Dal lato della domanda di consulenza, è necessario che il cliente comprenda, per esempio, che tutte le domande che l’intermediario gli rivolge per misurare il profilo di rischio, hanno lo scopo di curare il suo interesse. Dal lato dell’offerta, gli intermediari dovrebbero, se occorre, affinare le tecniche di profilatura della clientela, considerando la compilazione del questionario Mifid non come un passaggio burocratico necessario, ma come un’opportunità per costruire una relazione solida col cliente. Senza dimenticare che bisogna anche realizzare una rigorosa mappatura delle specificità e dei rischi degli strumenti offerti in consulenza nonché, prima ancora, costruire campagne prodotto che siano effettivamente funzionali alla soddisfazione dei clienti e non già alle esigenze funzionali dell’impresa.
Spitale. Vorrei a questo proposito citare un nostro esempio. Noi abbiamo riformulato il questionario di profilatura in base alle normative Mifid. Un questionario di 11 pagine. La Consob ci ha detto: non ve lo compileranno mai! Invece non abbiamo trovato un solo cliente non disposto a rispondere a tutte le domande, dopo la comprensibile ritrosia iniziale, percepita la consapevolezza che sarebbe servito per fornirgli il miglior servizio di consulenza per gli investimenti.
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