ERNST LEITZ La Leica che salvò cento ebrei

L’industriale tedesco negli anni Trenta trasferì molti dipendenti negli Usa per sottrarli alle persecuzioni

ERNST LEITZ La Leica che salvò cento ebrei

Berlino. A volte le vie del bene e del male si incrociano e si confondono creando uno strano intreccio in cui il bene, per affermarsi, dipende dal male. È quanto avveniva durante gli anni del nazismo negli stabilimenti della Leica, fiore all’occhiello dell'industria del Terzo Reich la cui produzione diede un contributo non secondario ai piani militari di Hitler. Nelle officine Leitz, a Wetzlar, non veniva prodotta solo la famosa macchina fotografica, a quei tempi un gioiello della tecnica, ma tante altre cose che servivano alle forze armate tedesche: strumenti ottici, apparecchiature fotografiche per la ricognizione aerea, lenti di ingrandimento per studiare i territori da conquistare oltre alle cineprese che ci hanno tramandato gran parte delle immagini sulla Germania nazista.
Non c’era reparto della Wehrmacht o della Luftwaffe che non fosse dotato di strumenti con il marchio Leitz. Ma contemporaneamente alla produzione di materiale bellico, gli stabilimenti della Leica funzionavano segretamente come centrale di soccorso agli ebrei in fuga dalla Germania. Tra il ’33 e il ’39 centinaia di ebrei tedeschi furono assunti dalla Leitz e poi trasferiti negli Stati Uniti con il pretesto di curare gli interessi della ditta oltreoceano ma in realtà con il chiaro proposito di sottrarli alle persecuzioni razziali. La via del male si intrecciava a quella del bene. Una storia venuta alla luce solo recentemente che ricorda quella di Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco che durante il Terzo Reich riuscì a salvare 1.200 ebrei polacchi impiegandoli nei propri stabilimenti anch’essi mobilitati per la produzione bellica. Il nuovo Schindler si chiama Ernst Leitz, proprietario della Leica, figlio del fondatore Guenther Leitz. Schindler e Leitz sono però due personaggi diversi. Schindler era un avventuriero che si improvvisò imprenditore e grazie al suo fiuto per gli affari riuscì a convincere la Gestapo che era più conveniente impiegare gli ebrei nei suoi stabilimenti anziché lasciarli inutilizzati nei lager. Leitz apparteneva al gotha dell’industria tedesca, aveva la tessera del partito, era quasi un personaggio ufficiale del regime tanto che dopo la guerra fu accusato di collaborazionismo (ma fu prosciolto come tanti altri industriali che contribuirono al riarmo di Hitler). Morì nel ’56 e solo ultimamente e per un puro caso si è saputo che quell’uomo così legato all’establishment del Terzo Reich aveva escogitato un sistema per sottrarre gli ebrei a morte sicura. È stato un rabbino londinese, Frank Dabba Smith, appassionato di fotografia e collezionista di macchine Leica, a scoprire l’attività di benefattore di Leitz. Durante un viaggio in America Dabba Smith, alla ricerca di un vecchio modello, contatta l’ufficio newyorkese della Leica e qui incontra un anziano impiegato, Henry Enfield, un ebreo tedesco giunto in America nel ’39. Tra i due ebrei il discorso si sposta sul passato e su come l’anziano impiegato è fuggito dalla Germania. Enfield dice che è tutto merito del suo Arbeitgeber, il suo datore di lavoro, Herr Leitz, e gli racconta dei corsi di specializzazione che c’erano alla Leica di Wetzlar. I più bravi venivano mandati come premio alla filiale di New York e Leitz faceva in modo che ogni anno tra i premiati ci fosse una forte percentuale di ebrei con il tacito accordo che una volta in America sarebbero rimasti a lavorare nella filiale o si sarebbero trovati un altro lavoro. E non era l’unico trucco che c’era a Wetzlar per far scappare gli ebrei.
Molti ebrei anziani venivano assunti e dopo un tirocinio mandati nel Nord e Sud America con il pretesto di aprire nuovi punti di vendita. Ottenere i visti di espatrio non era facile ma le autorità chiudevano un occhio perché Leitz era un personaggio importante. Inoltre Leitz era riuscito a convincere i nazisti che i mercati d’oltreoceano erano importanti per le casse della ditta e quindi bisognava seguirli con personale mandato dalla centrale. Tornato a Londra il rabbino fotografo si appassiona alla storia, vuole saperne di più, si mette alla ricerca di altri ebrei salvati da Leitz, va a Wetzlar e contatta il figlio di Leitz, Guenther, che gli mette a disposizione i documenti custoditi nell’archivio di famiglia: lettere di ringraziamento, richieste di visti, ordini di trasferimento all’estero che provano con assoluta certezza che fino al ’39, anno in cui i nazisti bloccarono gli espatri, Leitz riuscì a far scappare almeno 73 dipendenti, molti dei quali con i loro familiari. Ma secondo Kurt Rosenberg, altro ebreo tedesco trasferito da Wetzlar a New York negli anni Trenta, il numero complessivo degli ebrei salvati da Leitz sarebbe di gran lunga superiore perché molti trasferimenti sono avvenuti senza lasciare traccia oppure si è persa la documentazione durante i bombardamenti.
La documentazione che prova l’attività di benefattore di Leitz è stata consegnata ad una delle più importanti organizzazioni ebraiche, la Anti-Defamation League, che dopo attento esame ha organizzato una cerimonia per onorarne la memoria.

Resta da capire come mai Leitz non abbia mai voluto parlare di ciò che fece per gli ebrei neppure quando fu accusato di collaborazionismo. Una spiegazione l’ha data il figlio: «Mio padre diceva che davanti a ciò che è successo non c’è attenuante o giustificazione. E preferì tacere».

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