La crociata dei sarti chic diventa un caso politico

I maestri del vestito fatto a mano non vogliono nella loro strada lo store di Abercrombie&Fitch. Aperta una commissione d'inchiesta

La crociata dei sarti chic diventa un caso politico

Il verdetto finale arriverà tra tre giorni.

Martedì, quando una commissione d'inchiesta appositamente nominata si pronuncerà sulla questione che da giorni agita la storica Savile Row, la strada simbolo dell'eleganza british. Che ora è minacciata dal possibile arrivo di uno store di Abercrombie&Fitch, la catena americana la cui notorietà è dovuta in buona parte ai muscolosi commessi che girano a torso nudo tra manichini ed espositori e alla musica sparata a volume alto.

Lesa maestà, sacrilegio, almeno secondo il punto di vista dei grandi sarti di Savile Row: quelli, per capirci, che con mano sapiente hanno confezionato abiti per il primo ministro e premio Nobel per la Letteratura Winston Churchill, per l'ammiraglio Nelson, e, in tempi più recenti, per il principe Carlo d'Inghilterra o l'attore e sex symbol Jude Law. I modellisti di laboratori come «Anderson&Sheppard», «Gieves&Hawkes», «Davies&Sons», «Henry Poole&Co» e «Norton&Sons», divenuti celebri nel mondo anche per aver vestito un gentleman per eccellenza come James Bond, sono scesi in piazza. Con indosso cappelli, panciotti e doppiopetti fabbricati dopo ore di lavoro di ago e filo, brandendo cartelli con la scritta «Give three-piece a chance» («Salviamo l'abito a tre pezzi») hanno fatto sentire la propria voce contro quello che, per loro, è l'ennesimo sopruso dopo che nel 2007 le vetrine di Abercrombie&Fitch erano spuntate a pochi passi da loro, a Burlington Gardens.

Ora che un nuovo store commerciale, questa volta dedicato all'abbigliamento dei più piccoli, rischia di arrivare proprio lì, nella strada dove al numero 3 aveva sede la Apple Records, celebre casa discografica dei Beatles, non ci hanno visto più. Il pensiero che le note dei Fab Four, risuonate dal tetto di uno di quei palazzi, scenario del loro ultimo, indimenticato concerto, siano sostituite dal discotecaro «tunz-tunz» proprio non va giù.

Il vero oggetto del contendere, ovvio, non è tanto la musica quanto il commercio, e quindi il vile denaro. Ma non solo: è il contrasto tra l'alta sartoria e il fast fashion, le cuciture su misura contro la produzione in serie, la qualità che lotta contro il business a tutti i costi. È la sobria e raffinata madrepatria Inghilterra contro la commerciale e raffazzonata cultura yankee. Sono due modi di intendere la moda che finora hanno convissuto senza venire alle mani, tanto il target della clientela era differente, ma che adesso, con questa «invasione di campo», si calpestano ed entrano rumorosamente in guerra.

Una prima vittoria i sarti di Savile Row l'hanno portata a casa: la questione è arrivata sul tavolo del Westminster City Council, che ha espresso parere contrario all'eventualità. E l'assessore di Westminster, nonché presidente del comitato di sviluppo del quartiere, Alastair Moss, ha definito «inaccettabile» l'ipotesi che il colosso americano piazzi lì il suo nuovo store.
«Questa è un'area importante e l'heritage di Row va preservato», ha ribadito l'assessore che, per una casuale quanto perfetta nemesi, porta il nome dell'opera d'arte pop e commerciale per antonomasia - quella «zuppa Campbell» del geniale e americanissimo Andy Warhol - e il cognome della top model più famosa del Regno - l'altra Kate, quella meno sobria e più sregolata.

I fuoriclasse della sartoria britannica hanno vinto la battaglia, dunque, ma non

la guerra. Lo scontro finale si gioca tutto martedì, con la decisione della commissione, il cui giudizio sarà insindacabile. E intanto restano fermi sulle loro posizioni. Insomma, Dio salvi la Regina. Ma pure l'eleganza.

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