New York non sarà mai soltanto una città. Forse non è neanche un luogo. È uno stile: mentale, estetico, di vita. Dieci anni fa, quando il sindaco Bloomberg chiese di fare un sondaggio per darle un secondo nome, qualcosa di diverso da la Grande Mela, venne coniato questo: «New York, the world´s second home», la seconda casa del mondo. E per quanto brutto e da allora sostanzialmente inutilizzato, è uno slogan perfetto. Perché per tutti quelli che la amano, New York è casa. Anche se sono nati altrove, anche se vivono altrove. Perché, appunto, è uno stile, un'attitudine, un modo di essere.
Ognuno la vive a modo suo. C'è chi ci è nato, chi ci è arrivato da emigrato, chi ci viene ogni giorno per tornare a casa la sera: i pendolari le danno il movimento, i newyorkesi di nascita le danno solidità e continuità, i nuovi residenti le danno passione. New York è punto d'arrivo, una meta. È l'eccitazione che ti porta a Manhattan, l'idea di sentirti appunto casa anche se la casa l'hai appena lasciata per un nuovo mondo. Qui comincia New York e qui non finisce, anche se una delle cose che meglio ne raccontano lo spirito e la sana arroganza, è un pezzo di My Lost City di Francis Scott Fitzgerald e parla proprio della scoperta sensazionale e un po' sgradevole del fatto che New York ha dei confini. Nel 1931, quando fu completata la costruzione dell'Empire State Building, lo scrittore del Grande Gatsby fu invitato a salire. Poi scrisse: «Dal suo grattacielo più alto, il newyorkese ha veduto per la prima volta che la metropoli svaniva nel territorio da tutti i lati. E nel terribile momento in cui si è accorto che New York era una città dopo tutto, non un universo, l'intero edificio scintillante che egli aveva costruito nella sua immaginazione è venuto a crollare sul terreno».
Non c'è posto al mondo che cambi così senza cambiare mai: spariscono certe cose e ne nascono altre, si gentrifica, come dicono i manhattanite , quando vogliono raccontare che i vecchi quartieri disagiati stanno diventando chic. Era proibizionista, poi libertaria, poi hippie, poi yuppie, poi liberal, poi aggressiva, poi violenta, poi salottiera, poi ricca, poi fallita, poi rinata. Sempre e comunque con dei confini, dando l'impressione di non poterne avere. Perché la città finisce geograficamente, ma non nello spirito: individualista, innovativa, libera, imprenditoriale, avventuriera, a caccia di ricchezza. I dollari l'hanno costruita più di ogni grande architetto che ha questa città. Non c'è qualcosa di specifico che la rende così speciale. O meglio, è difficile dire che cosa sia, per questo si usa quell'espressione vaga come «lo spirito».
E però basta andarci per sentire qualcosa: una magia, una sensazione, una energia. New York crea la moda, crea fenomeni e crea anche se stessa. Arrogante, ma anche autocritica. Il solo fatto che sia stata costretta a crescere in verticale, almeno la sua parte più nota ovvero Manhattan, l'ha resa speciale, diversa, unica. Attrae milioni di persone ogni anno, da sempre. Turisti e sognatori che lì sperano di cambiare la propria vita. Non è solo una costruzione della grande macchina comunicativa, è la sua identità, la forza che ha avuto nel rialzarsi sempre e tornare al centro del pianeta ogni volta.
Chi la giudica solo un cumulo di cemento e vetro perché ne odia i grattacieli, deve solo alzare lo sguardo e arrivare fino al cielo. A New York è diverso da ogni altra città. Terso, limpido, sincero. Non c'è costruzione, non c'è sovrastruttura. Però c'è tutto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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