Feroci e pittoresche Le gang di New York dominavano la città

Da oggi a 5,90 euro con «il Giornale» il libro di Asbury sulle bande metropolitane agli albori della Grande Mela

Feroci e pittoresche Le gang di New York dominavano la città

Carlo Faricciotti

Quando si parla di gangster a New York, viene spontaneo pensare al Don Vito Corleone del Padrino piuttosto che a Lucky Luciano o ad Al Capone (che però spadroneggiava a Chicago). Chi ha letto James Ellroy potrà citare anche Meyer Lansky o qualche altro boss di origine ebraica. Ma prima di questi «uomini d’onore», altri personaggi tenevano in pugno la futura Grande Mela, controllandone tutte le leve, da quelle dell’informazione a quelle politiche. Uomini senza scrupoli che fondamentalmente appartenevano a due etnie: quella anglosassone o wasp (white-anglosaxon-protestant; bianco, anglosassone e protestante) e quella irlandese, emigrati cattolici spinti sulle rive del meraviglioso Nuovo mondo dal tallone di ferro britannico e dalle grandi carestie che colpivano periodicamente l’Irlanda.
Più selvaggio del Far West raccontato in migliaia film, lo scenario di New York dal 1830 alla fine dello stesso secolo era assai poco confortante: un porto che traboccava di emigrati in arrivo dall’Europa, case di legno che prendevano fuoco per niente e quartieri malfamati in cui vigeva solo la legge del più forte. Una materia narrativa pulsante che aspettava un giornalista che vi affondasse le mani e la penna. Quel giornalista si chiamava Herbert Asbury (1889-1963), autore di reportage di cronaca nera che alla fine degli anni Venti del secolo scorso abbandonò il giornalismo per la narrativa, sfornando, nel 1927, Le gang di New York, in vendita da oggi con il Giornale a 5,90.
Curiosamente, il libro di Asbury è coetaneo di quello che le storie del cinema considerano il primo film di gangster in assoluto, Le notti di Chicago (Underworld, in originale) di Joseph Von Sternberg. Asbury celebrava il funerale delle vecchie gang («le gang erano decisamente allo sbando nel 1914» scrive nell’introduzione al volume), Von Sternberg battezzava il nuovo gangsterismo metropolitano.
Il film che Martin Scorsese trasse dal libro di Asbury e uscito tre anni fa coaugulava le storie raccolte nel volume attorno a un nucleo forte: la rivalità tra la gang dei Native Americans, capitanata da Bill il Macellaio (Daniel Day-Lewis), e quella irlandese dei Dead Rabbits (guidata prima da Priest Vallon e poi da suo figlio Amsterdam, interpretato da Leonardo DiCaprio). In realtà Asbury focalizza sì i suoi racconti sulla zona di Five Points, cuore del film di Scorsese e ormai inghiottita da tempo dallo sviluppo edilizio, ma il suo libro è una collezione di racconti e di ritratti che vanno oltre una singola guerra per bande.
I suoi protagonisti attingono tanto all’epica quanto a Rabelais e Pulci, basti leggere la descrizione del gigantesco gangster Mose: «Era alto due metri e quaranta e la sua mole colossale era sormontata da una zazzera di fiammeggianti capelli rossicci (...). I piedi erano talmente grandi che i comuni stivali non gli cingevano nemmeno l’alluce (...). La forza di quel gigante era pari a quella di dieci uomini e nei momenti di svago aveva l’abitudine di sollevare dai binari un tram a cavalli e portarselo sulle spalle per qualche isolato».
Scorci eroicomici a parte, il libro di Asbury è ricco di dettagli illuminanti: per esempio la storia di Albert E. Hicks. Condannato a morte per plurimo omicidio e diventato famoso, Hicks era una specie di attrazione, nella sua cella nel braccio della morte, tanto da ricevere la visita anche di Phineas T. Barnum, impresario e creatore del circo moderno. «Barnum informò Hicks che desiderava realizzare un calco in gesso della sua testa e del suo busto per poi esporlo nel proprio museo insieme ad altre curiosità; dopo un’intera giornata di contrattazioni, si raggiunse un accordo in base al quale Hicks accettava di posare in cambio di venticinque dollari in contanti e due scatole di sigari da cinque centesimi». Era nata la società dello spettacolo.


Scrivendo nel ’27 l’introduzione al suo libro Asbury relegava le storie da lui raccolte nel lontano passato: «Il gangster è ormai scomparso dalla scena metropolitana e da quasi una decina d’anni esiste soprattutto nella fervida immaginazione di giornalisti zelanti». Che fosse ingenuità o omaggio al perbenismo dell’epoca, si sbavagliava clamorosamente.

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