Vivere ai tempi della guerra d'Etiopia

Non studiavo, ero disattento, prendevo note e voti decisamente negativi (mai andato sotto il due e sopra il sei). Solo all'inizio dell'anno scolastico arrivai a prendere anche sette nel primo compito di latino; una volta sola però. Non avevo voglia di applicarmi e non volevo andare mai alla lavagna; piuttosto mi facevo dare un due. Perché mi vergognavo. Bisogna sapere che mio padre (come tutti i militari) riceveva dallo Stato dotazioni di vestiario che lui non usava e che imponeva a me di indossare: a partire dalle mutande alla marinaio che mi erano ampie e lunghe tanto da doverle tirar su sino alle ascelle, affinché non spuntassero dai pantaloni corti, e poi fermarle con la cintura dei pantaloni, ricavati questi, dalla stoffa delle divise. Ma più ancora mi avviliva indossare le calze lunghe e le scarpe d'ordinanza che erano alte di collo e con i ganci per le stringhe, come le usavano i contadini (quelle dei militari marinai però erano di molto più belle).
A distogliermi dallo studio tuttavia, non erano soltanto queste cose, ma anche la voglia di giocare, di divertirmi. L'anno scolastico era iniziato all'insegna della conquista dell'Etiopia e, mentre il professore spiegava la lezione, coinvolti dalla propaganda del momento, il mio compagno e io denigravamo il Negus facendone schizzi ridicoli, oppure costruivamo, con strisce di carta di quaderno, piccoli carri armati che si muovevano soffiandovi sopra e, con quelli, facevamo la guerra tra di noi spacciandoci, or uno, or l'altro, per il Negus e per Mussolini.
Anche un altro pensiero mi distoglieva dagli studi. Ogni giorno speravo con ansia di ricevere una lettera dalla mamma per sentirmela vicino mentre leggevo. Ma anche perché, spesso, alla missiva allegava dieci lire che mi facevano sentire ricco. Lei, naturalmente non indirizzava la lettera a casa di papà, ma presso un mio amico - mi pare si chiamasse Zena - che abitava a piano terra e con il quale avevo preso specifici accordi. In verità, frequentavo poco questo ragazzo (diventato poi un buon calciatore, credo di serie A), nonostante abitasse due piani sotto di me. Egli, infatti, era sempre in strada a giocare da solo col pallone contro il muro.
Mio padre, invece, non voleva assolutamente che andassi già in strada dove c'erano anche tanti altri ragazzi e ragazze che giocavano come in un cortile dato che, allora, in quella via secondaria c'era pochissimo traffico automobilistico. Ricordo a proposito di ciò, che una delle poche vetture che passavano in via Antiochia era una piccola triposto «cabriolet» che veniva rimessa in un locale a piano terra in fondo alla tessa via. Credo fosse una Fiat Balilla con due posti alla guida e un terzo ricavato nel cofano posteriore dove ci si accedeva alzando un apposito sportello.
La zia Lina, invece, quando era sicura che papà non sarebbe tornato presto, mi consentiva di andare in strada. Quella era l'occasione per frequentare questo Zena, l'unico con cui avevo una certa confidenza.

Con gli altri ragazzi non legavo, ero diverso: non sapevo giocare alle figurine contro il muro, non sapevo giocare alle corse con le «agrette», non sapevo giocare al pallone, non avevo la bicicletta, né la «carretta» (erano assi di legno inchiodate a forma di trapezio allungato, con cuscinetti a sfere al posto delle ruote, su cui ci si sedeva e, spinta da altri amici, si gareggiava).
Non avevo neanche il tempo di imparare questi giochi.

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