Gettare il cuore oltre la tenebra

Nasceva 150 anni fa il grande autore britannico di origine polacca

Non importa in quale esatto giorno d’inizio dicembre del 1857 sia nato Joseph Conrad. Le date sono controverse. Secondo un documento trovato dal suo devoto editore italiano, Ugo Mursia, che tra gli anni Sessanta e Ottanta pubblicò i cinque volumi di tutte le opere di Conrad in un’edizione fondamentale, egli dovrebbe essere nato il 3 dicembre, e battezzato con il nome di Konrad Korzeniovski, figlio di Apollo e di Evelina Bobrowska, entrambi di famiglie appartenenti alla piccola nobiltà terriera polacca.
C’è da chiedersi che cosa possa aver trasformato questo bambino, figlio di un oscuro patriota polacco presto esiliato e morto, un ragazzo cresciuto a Cracovia con lo zio, un adolescente che pensava all’avventura della vita soltanto attraverso i libri, in un giovane che quell’avventura volle abbracciare, attraverso mari e terre del mondo intero, che sperimentò di persona, analizzò, sezionò, sigillandola per noi nella scrittura, la «linea d’ombra» oltre la quale nulla è più come prima, la linea che separa la giovinezza dall’età adulta, l’improbabilità del sogno dalle responsabilità concrete del mondo reale, quella che annuncia all’individuo l’adesione o meno al suo codice d’onore: il giudice implacabile e assoluto che avrebbe tormentato la coscienza di Lord Jim.
Le rotte della Malesia, dell’Africa e dell’Australia, con i loro porti e i loro trafficanti, le navigazioni insidiose, i drammatici tifoni e le bonacce, le sgangherate carrette e i vascelli modello, in una parola il mare, sono un paradigma insuperabile della vita: qui, ogni pezzo di vela, ogni cima, ogni attrezzo o manovra ha un suo nome e soltanto quello, senza ambiguità, senza allusioni o mistificazioni, e ogni comando, gesto, comportamento può avere conseguenze irreparabili, e la responsabilità, la competenza, il carattere dell’uomo, continuamente vi si confrontano.
A diciassette anni, nel 1874, Conrad buttò il cuore oltre l’ostacolo, partì per Marsiglia e s’imbarcò su un vecchio veliero che faceva rotta per la Martinica; l’anno successivo, su un’altra nave, andò nelle Antille, ovvero i luoghi che avrebbe rivissuto in Nostromo. Fu qui, a quanto pare, che conobbe quel tale Dominic Cervoni, un corso, testa piuttosto calda, il quale lo indusse poi a certi loschi traffici d’armi verso la Spagna, e fu forse per aver preso coscienza della china assunta dalla sua vita che Conrad lasciò la Francia e andò in Inghilterra e si arruolò nella marina mercantile inglese.
Fu una svolta importante. Partì su un veliero veloce per il trasporto delle lane, Sydney e ritorno, poi batté il Mediterraneo, quindi s’imbarcò per Madras, dove scese dalla nave per dissapori con il capitano, per imbarcarsi sul «Narcissus», navigando per sei mesi pressoché ininterrotti che si capisce quanto debbano essere stati forieri di cupi fantasmi, quando si legga quell’esperienza in filigrana tra le pagine del Negro del «Narcissus»; e ancora viaggiò tra l’Inghilterra, Singapore, Calcutta, Bombay.
A trent’anni, nel 1857, divenne finalmente primo ufficiale, e navigò tra Amsterdam e Giava e le isole del Borneo, dove fu costretto a fermarsi malato, e dove, per gli incontri umani che vi fece, trovò materia per Il reietto delle isole e per il memorabile Lord Jim. Non si può tacere, tra le ultime esperienze di mare e di vita, quella che avrebbe portato a Cuore di tenebra. Fin da ragazzo, aveva sognato di visitare un giorno il Congo Belga, e l’occasione gli venne offerta dall’incarico di comandare un battello fluviale, per 2000 miglia dentro il cuore del Continente Nero: fu un’esperienza assai dura, Conrad ne uscì malconcio, anche se probabilmente non dovette svolgersi nell’atmosfera allucinante di Apocalypse Now che vi si ispirava in una trasposizione da tregenda, non già più soltanto bellica, ma da precipitato infernale, al di là di ogni immaginazione, dove ormai tutte le valenze umane, razionali, esistenziali, sono saltate.
Poi avvenne qualcosa, o forse fu qualcosa che affiorò e s’impose soltanto in quel momento. Un giorno d’autunno del 1889, a Londra, il capitano della marina mercantile inglese Joseph Conrad, che allora aveva 33 anni ed era in attesa di un nuovo imbarco, si dispose come per caso a scrivere la storia di un mercante olandese conosciuto nei suoi viaggi nell’arcipelago, Kaspar Almayer (La follia di Almayer), e un nuovo orizzonte di territori interiori gli si aprì. Non aveva mai pensato di diventare uno scrittore, l’inglese non era neppure la sua lingua.
Così, nel mezzo della sua vita, Conrad volle mettersi a indagare e a riflettere, raccontando delle storie, sulla questione che lo ossessionava, e che aveva attraversato le sue esperienze e sentito sulla propria pelle: l’antinomia senza soluzione fra la dimensione amministrativa della vita e la poesia, fra relativo e assoluto, fra azione ed etica. Una cosa gli appariva chiara, ad essa credeva strenuamente: l’unicità dell’uomo, la presenza di un «testo» o «codice» dell’esistenza umana, che la storia non può scalfire. È come se l’uomo che egli rappresenta fosse completamente fuori della storia, non si sa se al di sopra o al di sotto di essa.
Nell’ultimo romanzo che riuscì a completare, prima di morire nel ’24, Il pirata, che era concepito sulla scia di alcuni temi di Suspense, il protagonista Peyrol, che è stato un pirata in mari lontani, è diventato straniero nel suo paese natio. Entrando a Tolone, egli si sente estraneo non soltanto alla Francia, ma anche ai suoi mutamenti interni, agli effetti della Rivoluzione. Infatti, per Conrad, che vede arroganza potenziale in ogni ideologia politica, le grandi lotte dell’umanità hanno un denominatore comune, al di là del preteso ideale che vantano e che le ha scatenate, con esiti di brutalità d’ogni tipo, capaci soltanto di creare nuove categorie di padroni.


Dalla sua cassetta di preziosi rasoi inglesi, Peyrol prende il più bello. «Come acciaio, era un buon acciaio - pensò guardando fisso la lama. Ed eccola lì, quasi consumata... Stessa cassetta, stesso uomo. Ma l’acciaio, consumato».

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