LA GRANDE GIOSTRA

L’idea semplice, di base, originaria per togliere quattrini dalle tasche dei cittadini e metterle in quelle capienti dello Stato, è che quest’ultimo ha contratto debiti in nome e per conto dei primi. Un rosso che dovrebbe nascere dall’esigenza di fornire servizi e beni ai più deboli. A ciò si aggiunga la necessità per lo Stato di avere un po’ di risorse per lo sviluppo della comunità: insomma per investire anche dove il singolo non avrebbe alcuna convenienza a farlo. In un mondo ideale si potrebbe dunque semplificare che le leggi Finanziarie servono per pagare i servizi essenziali e per quelle opere pubbliche che ci permettano di competere egregiamente con il resto del mondo. Questa è la teoria.
La pratica è che la legge Finanziaria è un’enorme giostra in cui redistribuire i redditi (finalità che per taluni, ahinoi, è ancora sacrosanta), elargire piccoli favori di quartiere, coprire spese ereditate dal passato e perpetuare una classe politica alla ricerca del consenso. Ebbene per un governo debole essa rappresenta un rischio di implosione, ma anche una grande opportunità per moderare le parti in commedia. Quella messa in piedi da Prodi è una Finanziaria incredibilmente classista e i cui saldi proprio per questo motivo lievitano ogni giorno che passa fino ad arrivare a 40 miliardi. Cerchiamo di essere più precisi. L’idea di base è stata quella di difendere e compiacere, anche legittimamente, «la classe sociale» che sostiene il governo Prodi. Si è favorito il lavoro dipendente rispetto a quello autonomo. Si è privilegiato il settore pubblico a quello privato. Si è superficialmente divisa l’Italia tra ricchi e poveri, banalmente in funzione della dichiarazione dei redditi. E infine si è quasi antropologicamente separato i buoni che pagano le tasse dai criminali che evadono.
Il gioco non funziona più. La divisione e la mobilità dei nostri cittadini è inafferrabile dalle semplici etichette classiste, eredità di un Ottocento strasepolto. Un apprendista che guadagna 20mila euro lordi l’anno, vedrà, grazie all’aumento dei contributi sociali, una busta paga più leggera di 162 euro l’anno. E se ne infischia delle tabelle di Visco che sostengono che egli possa avere un beneficio fiscale con un figlio a carico. Semplicemente non lo ha. E tantomeno vuole averlo sulle basi marxiane di un temporaneo vantaggio economico. Il proprietario di un Suv non necessariamente è più ricco di un elegante manager immobiliare che gira con una Fiat Idea, con relativo autista. Insomma fare a fette una società complessa come la nostra, e mettere buoni e cattivi su sponde separate è da folli. Ma soprattutto alla fine non fa quadrare i conti: quelli ragionieristici e quelli sociali. Quando un esecutivo nel suo complesso di manovre economiche, come dimostra l’articolo nelle pagine interne di Gian Maria De Francesco, sottrae risorse per dieci miliardi alla parte considerata più produttiva del Paese, fa un danno persino alle sue prospettive elettorali. Non è un caso che la politica dei territori che meglio conosce questa complessità sociale critichi sia da destra sia da sinistra le manovre del governo Prodi.


Bloccare i grandi lavori così come tassare gli apprendisti o martellare i proprietari di casa, sono mosse di politica economica figlie della medesima anacronistica semplificazione della nostra realtà sociale. Considerare i commercianti che sfilano a Treviso o i professionisti che manifestano a Roma, semplicemente degli evasori sembra l’atto disperato di un ignorante più che un disegno lucido di propaganda.

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