La prossima guerra

Il fantastico Grand Hotel di Taipei, costruito all'inizio degli anni Settanta in piena era Kuomintang, è un esempio monumentale di stile cinese tradizionale, caratterizzato da una sua peculiare variante del colore rosso

La prossima guerra

Il fantastico Grand Hotel di Taipei, costruito all'inizio degli anni Settanta in piena era Kuomintang, è un esempio monumentale di stile cinese tradizionale, caratterizzato da una sua peculiare variante del colore rosso. Guarda dall'alto di una collina lo spettacolare panorama, al di là del largo fiume Tamsui, dell'intera metropoli di sei milioni di abitanti (inclusa la vasta municipalità di New Taipei che la circonda) capitale della Repubblica di Cina, la piccola, ricca e orgogliosamente filoccidentale anti-Cina Popolare meglio conosciuta con il nome dell'isola su cui si estende: Taiwan. Dopo l'inevitabile visita alle grandiose sale e alle lussuose suites, la guida ci conduce alla vera curiosità di questo luogo: un incredibile tunnel «segreto» sotterraneo, in vertiginosa discesa per l'equivalente di sei piani, con una ripida scala e una specie di scivolo scavato nella roccia e liscio come una pista da bob. Ci spiega che era stato realizzato per consentire a Chiang Kai Shek, leader venerato della Cina nazionalista trapiantata a Taiwan per sfuggire all'armata rossa di Mao Zedong, di fuggire in caso di attacco nemico. Fuggire a precipizio, è il caso di dire. Tenere presente che, all'epoca, il presidente taiwanese aveva compiuto 85 anni, pertanto la discesa sullo scivolo sarebbe stata resa possibile da due colossali guardie del corpo che se lo sarebbero tenuto abbracciato tra di loro, in una scena grottesca da film di James Bond. Fatichiamo a immaginare questo spettacolo mai avvenuto, ma non avremmo voluto essere nei panni dei militari costretti chissà quante volte a rischiare l'osso del collo durante le prove. Il contrasto violento tra il lusso rutilante del Grand Hotel e il cupo clima da bunker dei suoi sotterranei è un buon esempio della paranoia taiwanese, presente sempre ma come occultata. Siamo arrivati qui immaginando di venire a respirare un clima da assedio e di tensione da guerra imminente che non abbiamo trovato, perché ampia è la distanza tra la preoccupata consapevolezza dei vertici politici e militari e il bisogno della gente comune di vivere una vita normale, nonostante tutto. A Taiwan si vive in apparente spensieratezza («ottimismo», preferiscono dire qui) e in un ordinato benessere frutto di duro lavoro quotidiano, ma sempre consci di una minaccia fatale potenzialmente incombente. Sono abituati da settant'anni alle pressioni di un vicino prepotente e grossolano, un po' come in Corea del Sud, dove proprio in questi giorni una strage di 150 giovani rimasti schiacciati dalla calca durante i festeggiamenti di Halloween è riuscita a far passare in secondo piano l'eccezionale gravità dei lanci di missili sopra le città sudcoreane ordinati dal megalomane pazzoide del Nord comunista Kim Jong-un.

Centoquaranta chilometri al di là dello Stretto, la Cina rossa incombe, con le sue dimensioni e i suoi appetiti geopolitici incomparabili e col passare del tempo sempre più difficilmente contenibili. Ai tempi di Chiang Kai Shek, morto nel 1975, era uno scherzo rispetto a oggi. Il vecchio Mao inseguiva il sogno dell'immortalità personale attraverso la costruzione della grande potenza cinese, ma partiva da molto indietro e al massimo poteva permettersi di bombardare a tappeto gli avamposti nazionalisti sulle isole di Kinmen e Matsu, a poche miglia dalla costa. Oggi, Xi Jinping persegue un obiettivo che crede vicino: la sfida da pari a pari del Dragone cinese all'Aquila americana. Una sfida anche militare, che vede l'intera Taiwan come primo obiettivo da prendere. A essere precisi, Xi dice «riprendere», ma mente: la Cina popolare, qui, non ha mai governato per un solo minuto, ma si teme che presto disporrà dei mezzi per arrivare a farlo contro la volontà dei suoi abitanti. Intanto, da Pechino si guarda con attenzione a come finirà l'avventura militare dell'alleato russo Vladimir Putin in Ucraina: se l'Occidente resterà unito e Putin perderà, gli eventi consiglieranno prudenza, ma in caso contrario Taiwan dovrà tremare.

Il vecchio generale
La memoria di Chiang Kai Shek sta diventando meno centrale e a volte perfino problematica nel pantheon ideologico di Taiwan. Il vecchio generale aveva guidato fin qui nel 1949 due milioni di soldati nazionalisti cinesi sconfitti con le loro famiglie e pretendeva che l'isola si convertisse nella base di partenza per la riconquista dell'intera Cina. «Vaste programme» mai conseguito. La Taiwan di oggi è diventata nazionalista in un modo nuovo, meno cinese e più taiwanese: e tali si sentono ormai i suoi odierni abitanti, soprattutto i giovani. Nel cuore di Taipei, però, resiste all'interno di un magnifico parco affollato di bandiere il mausoleo dedicato all'uomo che molti indicano semplicemente come CKS. Una ripida scalinata di marmo bianco conduce all'edificio-museo che contiene i suoi riveriti cimeli e che ospita l'immensa sala aperta, con vista sulla città, dove troneggia la colossale statua di granito del Fondatore. CKS è assiso in poltrona tra due bandiere e assiste perpetuamente alle cerimonie solenni di cambio della guardia tenute anche a uso dei turisti. Qui i comunisti non sono arrivati e non arriveranno mai, sembra dire l'ineffabile sorriso da Buddha del Presidente e lo stesso sembrano dire le lustre baionette e le candide uniformi dei militari, così minuscoli ai suoi piedi.

Chissà... Il presidente di oggi, la signora Tsai Ing-wen, guida un piccolo Paese fiero, ricco, civilissimo, che tutto vuole fuorché cedere ai «comunisti della terraferma» le proprie libertà e il proprio stile di vita, come già hanno visto accadere a Hong Kong. Qui a Taiwan, forse tra cinque anni, forse molto prima, forse mai secondo i più ottimisti, si combatterà. Ma è difficile non pensare che, in caso di aggressione, questo luogo sarebbe uno dei bersagli preferiti dei bombardieri cinesi.

Pronti a combattere
Taiwan dispone di forze armate ben addestrate e pronte a difendere l'isola-Stato la cui stessa esistenza è intollerabile per Xi Jinping. Ma per ovvie ragioni di sproporzione, il suo governo si appoggia all'alleato americano. Con crescente chiarezza, la Casa Bianca fa intendere che un'aggressione cinese la troverebbe schierata con Taipei. La distanza temporale da quella temuta battaglia aeronavale, però, si avvicina pericolosamente nelle previsioni degli esperti militari. I generali del Pentagono, che ancora quest'anno avevano suonato l'allarme di una possibile invasione «già nel 2027», ora avvertono che non sarebbe una vera sorpresa se ciò accadesse già l'anno prossimo. Solo che stavolta gli americani non resterebbero dietro le quinte come stanno facendo con l'Ucraina: qui dovrebbero venire a combattere in prima persona e le simulazioni indicano che il prezzo di una vittoria a carico delle loro potenti Marina e Aviazione sarebbe altissimo. Ma la determinazione di Joe Biden è chiara ed è stata ribadita dal recente invio in Australia di giganteschi bombardieri B52, il cui raggio d'azione è sufficiente a colpire in quest'area.

Clima inquietante, dunque. Eppure anche qui a Taipei come nella metropoli ucraina di Kharkiv così vicina al confine russo da essere l'ovvio bersaglio di un attacco russo i giovani bevevano birra e cantavano nei karaoke ancora la sera del 23 febbraio - nulla parla di una guerra imminente. La gente vive allegra, affolla ristoranti, negozi, feste di strada. Del resto, questo è un popolo abituato alle emergenze, a partire da quella perenne dei terremoti più rovinosi. Se chiedi in giro di Xi Jinping e delle sue pretese di «riunificazione» ti rispondono che è inutile dedicargli preoccupazioni. Il che per molti significa semplicemente ignorare il problema, per altri convivere con un brutto pensiero alla maniera fiera degli israeliani. O a quella tesa degli europei dell'Est, lasciando a parte il caso degli ucraini, che in quell'incubo ci sono già piombati a capofitto.
Anche in questo senso quella taiwanese è una società che cambia in fretta. Le vecchie tradizioni familistiche scompaiono, lasciando spazio a una sorta di edonismo gentile, ancora influenzato dal buddhismo e dall'enigmatica saggezza Tao. Si tende a prendere oggi quel che c'è, senza più far troppi progetti per il futuro a lungo termine. Il che non toglie che, se ci sarà da combattere, qui lo faranno.

Senza troppa pubblicità, c'è chi segue corsi di preparazione militare per i civili. Finire come a Hong Kong non è accettabile per nessuno. Ma mentre te lo spiegano, un vago senso di inquietudine pervade l'europeo in visita: qui si balla sul ponte del Titanic.

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