Impegnato o no purché sia scrittore

«Gli editori si lamentano che il mercato del romanzo sia in declino. È stato sempre difficile scrivere un buon romanzo. Ma, in passato, bastava avere talento per riuscirvi. Ora, invece, le difficoltà sono aumentate in maniera incalcolabile, perché non è più sufficiente avere talento di scrittore per creare un buon romanzo».
Questa sentenza di morte fu decretata da José Ortega y Gasset nel 1925, soltanto tre anni dopo la pubblicazione dell’Ulisse e due anni prima che Proust avesse dato alle stampe il quindicesimo volume della Recherche. Ancora dovevano apparire L’urlo e il furore di Faulkner, Viaggio al termine della notte di Céline, e poi La cognizione del dolore, Lolita, Herzog, Cent’anni di solitudine, L’arcobaleno della gravità, Meridiano di sangue, Il teatro di Sabbath... tanto per citare alcuni dei grandi romanzi degli ultimi ottant’anni.
È, dunque, quella dell’intellettuale spagnolo, una profezia che lascia ben sperare: alla faccia dei periodici Armageddeon annunciati dai tifosi della «morte del romanzo», questo genere letterario sembra riuscire a mutare pelle ad ogni svolta della storia. Sempre Ortega y Gasset scriveva che «nel romanzo esiste un numero limitato di temi possibili», e che sono stati già tutti utilizzati. Se questa contestazione è vera, è pure irrilevante. Stile e struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee non servono a nulla. Lo sapeva bene Giorgio Manganelli quando rimproverava Walt Whitman: «Il problema di Whitman, naturalmente, sono le idee; ne aveva, accade a tutti; ma oscuramente, a intermittenza, avvertiva che per un poeta non è una buona cosa avere delle idee». È un giudizio, caustico, che bisognerebbe estendere a tutta la letteratura, soprattutto quando si agita da più parti lo spettro dello scrittore impegnato.
Non c’è nulla di male nell’essere un artista engagé, ci mancherebbe altro. Ma da lettore sono propenso a controllare innanzi tutto se l’artista sia tale; che poi s’impegni, buon per lui. Ciò che mi risulta inaccettabile è però il risentimento di molta critica nei confronti del valore estetico della letteratura. Harold Bloom ha fatto giustamente notare che un lettore non s’avvicina a un libro «per espiare colpe sociali, ma per dilatare un’esistenza solitaria».

Del resto, a chi passasse nel 2005 un paio di sere in compagnia di Madame Bovary potrebbe mai interessare il fatto che il capolavoro di Flaubert sia una sferzante denuncia contro la borghesia francese del XIX secolo? Leggiamo forse Cervantes per informarci sulla Spagna del ’500? Compito di uno scrittore di genio è reinventare il mondo, non rappresentarlo. «Non chiedete mai se è vero un romanzo», diceva Nabokov; «Emma Bovary non è mai esistita: il libro Madame Bovary esisterà per tutti i secoli dei secoli».

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