Che ne sarà del progetto politico di Sharon senza Sharon? È La domanda che tutto il mondo si pone con drammatica apprensione. Perché il vecchio combattente Ariel ha realizzato per il suo Israele, per il Medio Oriente e per il mondo intero, quel miracolo che per cinquant'anni sembrava impossibile. Trovare il bandolo della matassa in cui è avvoltolato il filo della convivenza israelo-palestinese e della sicurezza dei due Stati, entrambi legittimati ad esistere pacificamente l'uno accanto all'altro.
Sarebbe ingenuo ignorare le difficoltà che si incontrano per portare avanti la politica di pace e di sicurezza di cui Sharon ha gettato le prime ma essenziali fondamenta. La forza dell'uomo, l'intelligenza dello statista e la vigoria del guerriero sono ineguagliabili. Specialmente nel momento in cui Israele è assediato, ancora una volta, da centinaia di milioni di fondamentalisti arabi che, con la demagogia della parola e la brutalità del terrorismo, non lasciano tregua.
Quale che sia il successore del primo ministro, l'ex laburista Shimon Peres, il vice interinale Ehud Olmert, il ministro della difesa Shaul Mofaz o la quarantasettenne ministro della giustizia Tzipi Livni, e quali che saranno i risultati delle elezioni del 28 marzo per la nuova formazione centrista Kadima (Avanti) che si interpone tra i conservatori del Likud e i laburisti, a me tuttavia pare che il progetto di Sharon abbia buone probabilità di sopravvivere al suo ideatore e di fare passi avanti lungo l'itinerario intrapreso. E ciò per diverse ragioni.
La prima è che Sharon non ha inventato una tattica ma ha fondato una politica in grado di tradurre nella realtà un'idea forte, un'idea condivisa e un'idea alternativa a tutto ciò che l'ha preceduto. Ha così determinato una rottura rivoluzionaria in tutta la politica israeliana compresa quella dei suoi avversari. Perché ha coniugato in maniera intransigente il diritto degli israeliani alla sicurezza (con il muro) con il parallelo dovere, fatto rispettare con altrettanta durezza, di abbandonare gli insediamenti sui territori.
La seconda riguarda la natura dello Stato e della società di Israele. Che sono ben diversi da quelli di un qualsiasi staterello che perde il suo dittatore muscoloso ma isolato. Israele ha una classe dirigente forte e consapevole che fa blocco sulle responsabilità nazionali per cui Sharon lascia un consenso idealmente, socialmente e politicamente ovunque ben radicato. Paradossalmente, una democrazia forte è in grado di rimpiazzare anche il leader meno rimpiazzabile come Sharon. In questo caso la solitudine del guerriero-statista è accompagnata dall'apprezzamento e dal sostegno di gran parte della nazione.
Vi è poi il fattore internazionale che non deve essere trascurato. Sul progetto sharoniano hanno puntato i grandi della terra, a cominciare da George W. Bush, cosa non marginale, fino a Putin, Blair e Chirac. Se è vero che la questione israelo-palestinese ha una dimensione internazionale, sarà difficile che i potenti leader d'Europa, d'America e degli altri continenti non facciano tutto il possibile, anche in termini di aiuti materiali alle due parti, per fare progredire un progetto così faticosamente impiantato.
Ultimo, ma non minore, è l'interesse dei settori palestinesi più responsabili, quelli che attualmente governano con Abu Mazen, a confrontarsi con l'unica politica che offra una plausibile alternativa ad una perenne condizione di disordine, scontro, e violenza senza via d'uscita.
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