Balducci: «Non sono un giustiziere. Ora vivo un inferno»

Balducci: «Non sono un giustiziere. Ora vivo un inferno»

«Non volevo uccidere, non sono un killer. Era meglio se mi sparavano, la mia vita ormai è un inferno». Enrico Balducci, ex consigliere regionale e gestore di alcune stazioni di servizio, parla dopo la sentenza che lo ha condannato a 10 anni di carcere per l’omicidio di un rapinatore. Il 5 giugno 2010 in due, armati di una pistola poi risultata giocattolo, fecero irruzione nel distributore Tamoil di Palo del Colle nella periferia barese: minacciarono il benzinaio, il titolare sparò 3 volte, una pallottola fu deviata dalla moto utilizzata per la fuga e raggiunse uno dei rapinatori che morì dissanguato.
Balducci, secondo il giudice fu un omicidio volontario.
«Non so come si possa giungere a questa conclusione: tutto è accaduto in una frazione di secondo, non può esserci alcuna forma di dolo, neanche eventuale. E invece sono stato giudicato come fossi un appartenente alle forze speciali».
Che cosa ha pensato in quei momenti drammatici?
«A nulla. C’è solo la paura che restringe il campo visivo: il mio sguardo era fisso sugli occhi di uno dei malviventi che spuntavano attraverso il passamontagna e sulla pistola puntata sul benzinaio».
Poi lei ha sparato.
«La perizia ha dimostrato che ho rivolto l’arma verso il basso e il proiettile è stato deviato dopo aver colpito la moto. Non volevo uccidere».
Quella è una zona ad alto rischio criminalità. Con che spirito si lavora?
«Nella stessa stazione di servizio, avevano ucciso il gestore e ferito il benzinaio, rimasto sulla sedia a rotelle. Gli assalti ai distributori sono all’ordine del giorno, si convive con la paura e bisogna essere fortunati. Comunque laggiù era la prima volta che andavo».
Ha subito altre rapine in passato?
«Dodici, oltre a 22 furti. È come avere una tassa fissa, senza considerare i pericoli».
Ha mai pensato di mollare?
«No, vado avanti: se mollerò sarà per qualche articolazione dello Stato. Da poco ho dovuto chiudere una stazione di servizio a Molfetta».
Perché?
«Hanno inseguito, mandato fuori strada, picchiato e rapinato una mia dipendente. Non potevo fare diversamente».
La Tamoil l’ha lasciata aperta.
«Me lo hanno chiesto le persone che ci lavorano: non posso abbandonarli, hanno famiglia. Da allora non sono più tornato».
Che cosa è accaduto dopo quella sera?
«La mia vita è stata distrutta: convivo con il senso di colpa, ho perso diciotto chili in pochi mesi, ci si chiude in se stessi. A tutto questo si aggiunge la vicenda giudiziaria: ho tentato di spiegare le mie ragioni e fare luce su questa storia».
Che cosa ha fatto?
«Ho avviato indagini difensive, ho dimostrato che non ho sparato alle spalle e che il colpo è stato deviato».
In aula non è servito a evitare la condanna.
«Non riesco a spiegarmi la decisione. Ormai difendersi dai rapinatori è un’aggravante».


Secondo lei sono sufficienti le norme attuali per tutelare la gente comune dai rischi della criminalità? Esiste un vuoto legislativo?
«Le leggi ci sono, bisogna applicarle».
Ha ancora fiducia nella giustizia?
«Certo, anche se so che il cammino è ancora lungo».

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