Roma - «Alla fine deciderà il capo». Il capo chi, Monti? «No, il capo dello Stato», si lascia sfuggire un membro del governo, il giorno dopo la trattativa-fiume che ha di fatto seppellito la concertazione. La riforma del lavoro si sta delineando ma ora si tratta di apportare alcune limature e, soprattutto, di scegliere lo strumento con il quale portare a casa anche il provvedimento sul welfare. Può sembrare una questione squisitamente tecnica e invece è decisamente politica. E nel rebus un ruolo decisivo ce l’ha proprio Napolitano che ieri un’indicazione l’ha data eccome. Sia al governo, sia ai sindacati: «Attendiamo di vedere come va la riunione di giovedì (oggi, ndr) che deve decidere il quadro complessivo della riforma del mercato del lavoro, la quale non può essere identificata con la sola modifica dell’articolo 18».
La prima parte del suo monito è rivolto alla Cgil, imbufalita per lo sfregio all’art. 18. Ma poi arriva anche un «consiglio» rivolto a palazzo Chigi: «Per dare un giudizio bisogna vedere il quadro di insieme, mi auguro ci sia attenzione e misura nel giudizio da parte di tutti e poi, naturalmente, dopo che il governo avrà dato la forma legislativa ai provvedimenti conseguenti la parola passerà al Parlamento». Come a dire: «attenzione e misura» al veicolo che si utilizza per portare a casa la riforma.
Tre le strade aperte per palazzo Chigi, ognuna delle quali ha pro e contro. La prima ipotesi, quella del decreto, sarebbe un atto di forza. Il governo potrebbe così imporre la sua ricetta, limitare al massimo le correzioni, decidere per il cosiddetto «prendere o lasciare», mettere la fiducia e incamerare la riforma a tempi record. Questa strada, prediletta dal Pdl, ha tanti pro ma anche qualche contro: «Esploderebbe il Paese», ammette il membro di governo. Di sicuro esploderebbe il Pd. Cosa che impensierisce il Professore, ieri con le antenne dritte per capire quanto i malesseri di Bersani & C. siano gravi e quanto amplificati per tener buoni i suoi. Dopo le parole di Napolitano, tuttavia, la strada del decreto sembra essere la più remota.
Poi c’è la seconda strada: quella della legge delega. In questo modo la riforma sarebbe suscettibile di discussioni e ulteriori limature in Parlamento. I partiti potrebbero dire la loro e limare qualcosa, senza tuttavia stravolgere il provvedimento. Anche perché Monti potrebbe mettere dei paletti ben precisi (per esempio sull’articolo 18) e lasciare che la riforma prenda corpo con dei decreti attuativi. Il vantaggio sarebbe quello di coinvolgere maggiormente il Parlamento; lo svantaggio sarebbero «i tempi molto più lunghi - ammette l’esponente del governo - e il rischio di infilarsi in un ginepraio». Vero è, tuttavia, che i decreti attuativi vengono valutati dalle commissioni parlamentari che poi danno dei giudizi ma non vincolanti.
La terza via, anche questa in campo, sarebbe la cosiddetta «ipotesi a grappolo». Ossia, spacchettare il provvedimento e approvarlo un po’ per decreto e un po’ per legge delega. «Ma la riforma va vista nel suo insieme e c’è il rischio che passino alcune parti mentre altre si blocchino». Insomma, un mezzo pasticcio.
Certo, Monti non vuole veder stravolto il suo lavoro, giusto ieri applaudito dalla Ue: «La riforma va in una direzione generale che merita di essere sostenuta». Ma potrebbe rallentare un po’ il ruolino di marcia, assecondando i desiderata del Pd e gli auspici del Colle. Il quale farà opera di moral suasion su Bersani: «Si scelga la legge delega ma mi raccomando: la riforma non va stravolta».
E anche oggi, nell’ennesimo ed ultimo incontro con le parti sociali, alla fine verrà soltanto redatto un verbale con le diverse posizioni in campo,
nulla di più. I tempi del «consociativismo» sono finiti. Così Monti procede, dopo aver incassato ieri il «sì» alle liberalizzazioni. Un consenso sempre più basso, però: solo 449 sì. A pesare la valanga di astenuti del Pdl.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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