Più lavoro e meno burocrazia: gli immigrati battono la crisi

Nel milanese corso di Porta Ticinese, con i suoi negozi di abbigliamento e tendenza frequentati da chi vuole trovare le marche giuste di jeans e scarpe, qualche tempo fa è spuntata una vetrina nuova. A un passo dall'appartamento di Lapo Elkann, il Diamante Blu (così si chiama il negozietto) ha iniziato a vendere t-shirt da ragazza, 5 euro. Dentro, abitini (...)

(...) simili (anche se non del tutto) a quelli delle preziose boutique limitrofe e un paio di giovani sorridenti. Inconfondibilmente cinesi. Nel corso, che è diventata una delle strade più ricercate per lo shopping milanese negli ultimi 15 anni, non si era mai visto. In pieno agosto, con la città mezza vuota, la vetrina ha chiuso. Ma nel giro di pochi giorni il Diamante Blu è ricomparso pochi metri più in giù, molto più grande, vetrine tre, stipate di biker e borsette borchiate, come trend comanda. Mentre più in su, a settembre, un altra ex boutique italiana ha lasciato spazio a un inquilino asiatico. Di sera e di notte difficile trovarle chiuse e non accorgersi del frenetico via vai di carico e scarico. Come un cantiere permanente di capitale e lavoro. E qualcuno già scommette che non passerà molto tempo prima che il corso si trasformi da «Ti» a «Di»cinese.
Ieri la Confersercenti ha confermato la tendenza, estesa su grandi numeri e a livello nazionale: gli immigrati resistono meglio alla crisi e nei primi nove mesi dell'anno le imprese individuali con titolari provenienti dai Paesi extra europei sono aumentate di 13mila unità, mentre le altre sono diminuite di 24.500. Negli ultimi 10 anni il peso delle aziende con titolari stranieri sul totale nazionale è passato dal 2 al 9% e lo stock delle attività si è quintuplicato contro una contrazione tendenziale media del 3%.
Le spiegazioni sono complesse, sociali ed economiche. Qui ci preme dire un paio di cose. Intanto non si tratta più di un fenomeno circoscritto alle diverse etnie di riferimento: se prima offerta e domanda si incontravano all'interno dei vari ghetti locali, da tempo non è più così. Sono interi settori micro imprenditoriali che vengono occupati dagli stranieri, spesso in tutti i passaggi della filiera di riferimento. Così la ricerca di Confesercenti ci dice che la prima comunità di imprese extracomunitarie, quella marocchina, domina nelle vendite al dettaglio, soprattutto nei mercati ambulanti; la seconda, i cinesi, nell'abbigliamento e ristorazione. Poi ci sono romeni e albanesi che fanno le ristrutturazioni, mentre indiani e sudamericani si dedicano all'alimentare al dettaglio. Gli italiani lasciano a loro lo spazio perché non hanno più voglia di fare il caffè nei bar e di vendere frutta o perché non ce l'hanno i loro figli, quando ci sono. Oppure perché i prodotti e i servizi sono sempre più concorrenziali nel rapporto tra qualità e prezzo e qualcuno getta la spugna.
Non a caso c'è chi, tra commercianti e artigiani, si lamenta degli orari serali e notturni, dei festivi, degli standard operativi. Senza capire che questa resistenza è destinata a essere schiacciata, prima o poi, dal mercato. Non c'è alcuna alternativa. Chiedere, per esempio, ad Extrabanca: è l'istituto rilevato in primavera dalla Sator di Matteo Arpe, che si rivolge alla clientela immigrata. Quattromila clienti, due filiali operative a Milano e Brescia e altre 38 in cantiere, a partire da Prato e Roma. Un'attività nata per le rimesse degli immigrati, ma che si sta trasformando nella banca dei piccoli imprenditori stranieri in Italia. Oltre che in un bel business perché si è scoperto che il loro tasso di sofferenze è molto più basso di quello dei colleghi italiani: i soldi li fanno e quindi li restituiscono.
Infine non porta da nessuna parte l'idea che gli extracomunitari abbiano più successo perché non rispettano le norme, siano esse fiscali, previdenziali, sindacali. Certo, esistono ed esisteranno sempre casi anche enormi di violazione. Ma la stessa Confesercenti, registrando la crescita dei propri associati stranieri, ci parla di attività regolari, che si rivolgono all'associazione proprio per accedere ai servizi previdenziali e fiscali previsti dalla legge. La lotta va fatta contro le attività abusive. Ma questa è un'altra storia, che nulla ha a che fare con queste 300mila imprese che pesano per il 5,7% del nostro Pil.

segue a pagina 9

di Marcello Zacchè

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