Ira di destra e sinistra per il primo film Usa sulla guerra del Golfo

Silvia Kramar

da New York

Il primo film americano sulla Guerra del Golfo, Jarhead, è uscito nelle sale Usa con un coro d’insoddisfazione. Hollywood possiede una lunga tradizione di film di guerra, realizzati durante e dopo la fine delle due guerre mondiali, di quella del Vietnam e di Corea, storie che offrono uno spunto storico per ricordarsi dei perché, dei quando e dei come di guerre che sono finite lasciando dietro di sé armistizi o ritirate, tombe e massacri, epitaffi ed eroi sepolti nella bandiera a stelle e strisce, famiglie distrutte e veterani con l’ombra della morte negli occhi.
L’ultimo film di Sam Mendes - regista che ci aveva portato nel pieno delle nevrosi delle famiglie americane con la sua opera prima, American Beauty - invece porta lo spettatore ai tempi della prima Guerra del Golfo. Non in quella che sta accumulando morti e immagini devastanti, quella che sta quasi annientando la capacità degli americani di essere onesti nei confronti di sé stessi e delle immagini quasi quotidiane di attacchi terroristici, camioncini militari fatti saltare in aria, sorrisi di marines ventenni che appartengono ormai solo alla pagine dei necrologi dei quotidiani locali.
Quella del 1991, narrata nel best seller omonimo di Anthony Swofford pubblicato sotto forma di diario nel 2003, era stata una guerra combattuta dagli aerei militari, dai missili a lungo raggio e dall’intervento, soltanto periferico dei marines, il miglior corpo combattente dell’esercito americano. Ed era stata una guerra iniziata e finita in pochi mesi, senza che la Madre di tutte le battaglie scivolasse nelle armi di distruzione di massa, nei gas nervini e nei missili su Tel Aviv. Ci si può ancora permettere di fare dell’umorismo, sulla prima guerra in Irak e Mendes lo fa con un’ironia quasi da matricola. Un’ironia che a tre giorni dall’uscita di Jarhead ha scatenato la rabbia dei critici di destra e di sinistra.
Il protagonista Swoff (Jake Gyllenhaal), comincia la sua gavetta nei marines con una serie di vignette umoristiche, mentre la voce fuori campo ammette che si era arruolato quasi più per noia che non per passione: suo padre e suo zio si erano fatti entrambi il Vietnam, le poche immagini della sua infanzia ci portano in uno squallore da American trash, quel mondo dove alcool, violenza e malattie mentali sono serviti tutte le mattine con i cornflake. Sua sorella, ad esempio, è ricoverata in un istituto psichiatrico, ma lui, per uscire da quella ragnatela famigliare, si arruola nei marines. Come in Full Metal Jacket anche lui è strapazzato dal sergente istruttore, che finisce per sbattergli la testa sulla lavagna quando ammette di essere finito nei marines «solo perché ha sbagliato strada mentre andava all'università». Al ritmo di Don’t worry by happy le nuove reclute marciano verso la base, dove li aspettano altri addestramenti così feroci che uno di loro, paralizzato dalla paura, sarà ucciso da un proiettile. «Cominciano così le gravi inesattezze del film» scrive sul New York Post Kyle Smith, soldato nell’Operazione «Tempesta nel deserto». «Così come la scena in cui il sergente, davanti ai giornalisti, obbliga i suoi marines a giocare a football sotto il sole del deserto, a più di cinquanta gradi, con le maschere antigas. Sarebbero morti perché quelle maschere non funzionavano».
Che la stampa americana di destra non fosse pronta ad applaudire un film il cui titolo, Jarhead, «testa di lattina», è il nomignolo affibbiato alle teste vuote dei marines, era quasi scontato. Dopotutto, nei lunghi mesi trascorsi ad aspettare negli accampamenti nel deserto dell’Arabia Saudita le reclute di Mendes non fanno altro che «idratarsi, esercitarsi, masturbarsi e idratarsi ancora». Ma dalla stampa di sinistra ci si aspettavano lodi per un film che, comunque, offre uno sguardo ravvicinato alla vita di quei marines che ogni giorno combattono in Irak. Invece sul New York Times A.O. Scott ha mostrato il suo disappunto, domandandosi anche perché Mendes non abbia avuto invece il coraggio di fare un film sulla guerra in corso e sul suo sangue: «Il regista tratta i marines come se fossero dei pistacchi: ne spacca il guscio per svelare piccoli pezzi di emozioni». Dopo mesi di inerzia, arrivando in Irak i marines di Jarhead trovano le colonne militari irachene annientate dai bombardamenti americani e i pozzi petroliferi in fiamme. Alcuni muoiono dalla voglia di ammazzare il nemico, in quella frenesia del sangue che è stata loro inculcata fin dal primo giorno per trasformarli in perfette macchine da guerra. Quando Swoff osserva nel mirino il suo primo bersaglio, un soldato della Guardia nazionale irachena, dice: «Ecco che facce hanno». Ma nemmeno quel singolo colpo gli è permesso: il plotone fa ritorno negli Usa senza aver mai usato un’arma.
Anche il pubblico femminile torna a casa con la propria dose di disappunto: in Jarhead le fidanzate dei marines e qualche moglie, rimaste a casa ad aspettarli per pochi mesi, sono quasi tutte infedeli, anzi inviano per spregio al fronte dei videotape in cui fanno sesso con il vicino di casa. «Perché stupirci? - osserva un soldato -. Ci hanno dimenticato tutti».

Se messa in bocca a un marine che oggi pattuglia le strade intorno a Bagdad, questa lamentela avrebbe sapore di preghiera; detta invece da un marine che, nella notte di Natale, si ubriaca con una tanica di alcol al suono di un rap da discoteca, ha solo sapore di Hollywood.

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