L’imbarazzo degli imprenditori Pd sul decreto contro le morti bianche

Le leggi ci sono già ma i manager capilista con Veltroni non hanno il coraggio di dirlo

Oggi potrebbero essere approvati dal Consiglio dei ministri i decreti attuativi sulla nuova legge per la sicurezza sul lavoro. Se servissero a ridurre ancora di più il rischio professionale ne saremmo compiaciuti. In realtà sono inutili e dannosi.
Inutili, per il semplice motivo che, come dimostra il drammatico incidente di Molfetta in cui «padrone» e dipendenti hanno perso la vita, le sanzioni (che già comunque ci sono) non sono una polizza contro la fatalità, l’insipienza o l’errore, che sono causa primaria delle morti sul lavoro. Caso diverso è quello della Thyssen di Torino in cui le responsabilità dell’impresa sembrano forti. Ma proprio in questo caso si dimostra, con un processo addirittura per omicidio volontario, che le leggi, anche durissime, ci sono.
Le nuove norme, dicevamo, sono pure dannose. Sono infatti figlie di quel costruttivismo sociale per cui si può essere felici per legge. L’idea, assurda ma così tipica, è che la legge determini i comportamenti, i risultati. La legge è la soluzione. Per legge si può far crescere la ricchezza collettiva. Grazie alla politica, che legifera, si può determinare il nostro futuro. È un’idea disgustosa (figlia del materialismo storico marxista) per cui un burocrate può anche dirci quando un bambino è vivo o non è. Le nuove norme sono dannose perché forniscono l’alibi a chi ci governa di aver risolto il problema, sull’onda della notizia contingente, soltanto perché si è arrivati ad un voto. E sono dannose perché il prezzo, per un beneficio che alla fine si rivelerà solo cartaceo, lo paghiamo tutti noi e in specie le imprese. Soprattutto le più virtuose che dovranno aggiungere pacchi di procedure a quelle già esistenti.
Il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, si è detto «indignato» per quelle norme «intrise di demagogia». Avremmo voluto sentire che cosa ne pensa Matteo Colaninno, il figlio di un grande industriale. Per due motivi: il primo perché è capolista nella regione più produttiva d’Italia, la Lombardia, il secondo perché è candidato con il partito democratico in cui la sua posizione potrebbe essere inconciliabile con quella della sua base sindacale. Con il Giornale però ha detto che non vuole parlare poiché, tra le altre cose, abbiamo definito la sua gestione della presidenza dei giovani industriali «politicante» (come altro definirla, con il senno di poi, caro Matteo?). Pazienza. Ci auguriamo però che i tre capolista democratici di tradizioni imprenditoriali (la Merloni che invece ha parlato della vicenda, Calearo e Colaninno appunto) riescano a far valere il loro peso e la conoscenza che hanno del mondo delle imprese. Ma già che ci sono i nostri tre non potrebbero su questa sciagurata legge sulla sicurezza farsi sentire, ora che sono in tempo? Sarebbe un bel segnale di vera modernizzazione della sinistra.

Sono candidati bandiera, hanno dunque il ruolo per poter far una battaglia di principio per di più con un governo di cui, formalmente, non fanno parte. Se non hanno il coraggio di intervenire su questa vicenda pensate voi che peso avrebbero in un governo di Walter.
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