Andrea Avaldi è uno degli ingegneri strutturalisti che lavorano nel team di Luna Rossa fin dalla prima esperienza neozelandese. Il suo lavoro è a stretto contatto con i designer cui, sulla carta, spetta un lavoro più vicino alle idee. Nella pratica, facendo un esempio quasi calzante, è un po' come nei grattacieli il lavoro dell'ingegnere che calcola il cemento armato dopo il disegno dell'architetto.
Quali sono le zone della barca su cui avete lavorato di più?
«La spina dorsale della barca, la zona dove si concentrano le forze più grandi è quella sotto l'albero, dove si sostiene anche il bulbo. L'albero spinge in giù con una spinta che arriva a sessanta tonnellate e la pinna reagisce all'interno della barca con forze che possono arrivare a centinaia di tonnellate. Il danno se si rompe qualcosa è enorme, è come un aereo che perde un'ala o una F1 dove esplode il motore. Si arriva al ritiro e può essere pericoloso. La sfida è fare tutto più leggero possibile, così la pinna e il bulbo che pesano assieme 21 tonnellate sono sostenute da una struttura di meno cento chili. Dai tempi del Moro di Venezia a oggi il peso delle strutture è diminuito del 40%».
Ci sono dei limiti al vostro lavoro?
«Per esempio il movimento delle vele all'interno della barca è un limite. Serve poter trasportare le vele da poppa a prua o viceversa in pochi secondi. Nelle ammainate dello spinnaker con i sistemi di recupero azionati dai winch le vele vengono praticamente risucchiate sotto la barca a gran velocità seguendo un percorso ottimizzato: non devono impigliarsi, tagliarsi, non possiamo mettere ostacoli».
Questa leggenda delle barche che flettono e cambiano forma è vera?
«Si cerca di giocare con i regolamenti. Nella F1 fanno ali che si flettono un poco con la velocità, anche se non sarebbe permesso. Le barche si deformano e di solito questo porta a un peggioramento delle prestazioni, però se si riesce a disporre le fibre di carbonio in modo che si arrivi a una forma meno sfavorevole si può avere un vantaggio. Bisogna pensare che lavoriamo veramente sui decimi, il sandwich che compone lo scafo è spesso una ventina di millimetri, di cui meno di due per lo strato di carbonio esterno e uno per quello interno».
Per un uomo di strutture e numeri in questa Coppa c'è posto per le idee?
«È vero: sono un uomo di numeri, ma la parte creativa è fondamentale anche per il mio lavoro. Il computer convalida le idee, ma se non hai idee finisci solo per copiare».
Quali avversari sono più innovativi?
«Purtroppo il nostro lavoro si vede dentro gli scafi e quindi temo che non vedremo mai... per quel che abbiamo visto le barche sono molto simili e non ci sono grandissimi differenze. La velocità sarà una questione di dettagli, appendici e di cose che non si vedono».
Il carbonio è sempre il materiale principale?
«Sì, quello ad “alto modulo” ha la resistenza maggiore. Noi scegliamo quale usare in base alla zona di scafo. Poi c'è l'anima interna del sandwich che si chiama “core” che può essere di alluminio o di Kevlar, lavorati con una struttura alveolare. Altri materiali sono le leghe di titanio, le leghe di alluminio, gli acciai ad alta resistenza».
C'è una novità, una strada nuova verso cui si tenta di andare?
«Si sta incominciando a pensare alle resine caricate con le nanoparticelle. A parità di peso rendono i materiali più resistenti. Finora sono state utilizzate su componenti piccoli, come canne da pesca o racchette d tennis. Ci sono molte forme di nanoparticelle, tubi, lamelle, e stiamo arrivando adesso alle applicazioni strutturali».
Ci sarà una ricaduta di queste tecnologie nel campo commerciale?
«Sicuramente sì.
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