La popolazione irachena ha dato una lezione a tutti noi, favorevoli, contrari e dubbiosi sull'intervento americano a Bagdad. Chi avrebbe mai detto che per la terza volta, dopo le prime elezioni libere di gennaio e dopo il voto per la Costituzione di ottobre, milioni di donne e uomini sciiti, sunniti e curdi si sarebbero messi in fila per dare corpo a quella «rivoluzione della porpora» (dall'inchiostro sui polpastrelli per firmare) che sta meravigliando il mondo intero?
Ha ragione il presidente Ciampi che ha inviato un messaggio al presidente Jalal Talabani in cui sottolinea come «il coinvolgimento di tutte le componenti etniche e religiose nel processo politico, in uno spirito unitario, rimane cruciale per il consolidamento della stabilità e della democrazia in Irak». Ma la lezione irachena, con un intero popolo che ha sfidato difficoltà e violenze, va al di là di questa ultima prova di autogoverno.
Alcune questioni che riguardano gli equilibri internazionali, le strategie di pace su cui si arrovellano l'America e l'Europa, e gli assetti futuri del Medio Oriente, meritano particolare attenzione. Innanzitutto si deve prendere atto che la celebre formula dell'esportazione della democrazia, così contestata dopo gli errori commessi dall'Amministrazione americana all'indomani della defenestrazione di Saddam Hussein, conserva tuttora una insospettata vitalità. Non si possono eludere due domande apparentemente superflue: «Sarebbe stato possibile l'avvio della democrazia se i marines non fossero sbarcati tra il Tigri e l'Eufrate?», e «gli iracheni stanno meglio oggi o ieri quando regnava l'ordine mortifero del dittatore nazi-baathista?». Inoltre è più che mai necessario aprire una riflessione sugli effetti collaterali dell'intervento militare.
Si dovrà aspettare ancora molto tempo prima che la storia dia un giudizio definitivo sulla guerra americana. È però un fatto che la situazione si è evoluta positivamente non solo all'interno dello Stato iracheno (che per la prima volta nella storia si è dato una Costituzione federale che contempla la convivenza pacifica tra le tre maggiori etnie) ma anche più in generale nel Medio Oriente che nell'ultimo periodo ha conosciuto più evoluzioni dei precedenti cinquant'anni.
Gli afgani sono andati a votare liberandosi della pesante ipoteca di Bin Laden, anche se continuano ad essere insidiati dal traffico dell'oppio. La Siria, storico focolaio di sovversione terroristica in tutta la regione, ha ritirato le truppe dal Libano e sembra avere raccolto l'ammonimento della presenza militare americana in Irak. L'Egitto, se pure cautamente, ha fatto piccoli passi verso una maggiore democrazia elettorale. La Libia ha rinunciato al piano nucleare, a cui invece punta l'attuale dirigenza dell'Iran, preoccupata che l'esempio modernizzatore innescato in Irak possa contagiare anche la sua società tenuta sotto pressione dagli ayatollah fondamentalisti.
Quel che vorrei semplicemente sottolineare è che l'effetto domino in positivo dell'esportazione della democrazia in Irak non è stato soltanto una scusa teorica messa in bella mostra da George W. Bush per coprire una politica imperiale volta ad impadronirsi del petrolio mediorientale.
m.teodori@agora.it
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