I n unintervista, un mese dopo la sua morte, leditore Gabriele Mazzotta mi disse: «Marzio era naturaliter destinato a diventare ministro della Cultura». Per apertura mentale, per preparazione, per coraggio, per spirito organizzativo e per legame alle sue radici culturali, posso aggiungere. Ma così non è stato: Marzio Tremaglia morì il 22 aprile del 2000, a soli 42 anni, dopo aver lottato per almeno tre con la sua malattia. Era stato per cinque anni assessore alla Cultura della Regione Lombardia rivoluzionando il modo di affrontare la complessa materia e lasciando unimpronta indelebile del suo lavoro come dimostra il volume Ripensare la cultura (Mazzotta), curato da Romano F. Cattaneo, uscito un mese prima della morte, che documenta il suo lavoro.
Pur non potendo rammaricarci di quel che non è stato, non posso fare a meno di chiedermi: ma sarebbe stata veramente ipotizzabile questa sua nomina? E sarebbe stato possibile fare il ministro della Cultura in un governo di centrodestra, considerando quel che in due lustri è avvenuto politicamente e culturalmente nella destra italiana, quella ufficiale intendo? Conoscendo carattere e idee di Marzio, io credo che avrebbe trovato insormontabili difficoltà. Da un lato aveva idee precise e ben fondate: quando sul Corriere della Sera venne rilanciata la protesta dellArcigay perché il suo assessorato non aveva finanziato un festival di film omosessuali, Marzio rispose con una lettera: lui si atteneva al dettato costituzionale che prevedeva la difesa della famiglia, e quindi... Noi però sappiamo quel che è successo nel frattempo sia nel Paese sia nel centrodestra. E come si sarebbe comportato, lui che con legge regionale ha istituito il Centro studi della Rsi, con sede a Salò, diretto dal professor Roberto Chiarini e che ha per motto «Salviamo la memoria del nostro Paese», come si sarebbe comportato Marzio nei confronti del segretario del suo partito che definì allimprovviso, non solo le leggi razziali, ma il fascismo tutto e quello della Rsi in particolare come «male assoluto»? Lui che aveva inviato al segretario del suo partito molte e dettagliate lettere su problemi politico-culturali, tutte ovviamente inascoltate?
Marzio, però, possedeva soprattutto una visione amministrativa «a 360 gradi». Non era ottuso, ma managerialmente liberale, pur con i suoi «paletti» e aveva capito che alla fine del XX secolo certi aspetti del mondo moderno non si potevano ignorare. Ecco perché promosse, con i suoi collaboratori, una serie di importanti eventi sia di alta cultura che di cultura popolare: dalle grandi mostre internazionali alla rivalutazione del folklore (senza alcun eccesso di iperlocalismo leghista): da un lato la dea Iside, Kandinsky, Lorenzo Lotto, Postumia, Klimt, Hokusai, il Tibet; dallaltro il giallo, la fantascienza, lavventura, il fumetto, gli alieni, i vampiri. Marzio aveva capito che non ci si doveva adagiare sulla conquista del potere «politico», ma affermare anche una «visione del mondo». Senza faziosità ma anche senza timori reverenziali nei confronti dei tabù imposti dal conformismo e dal «politicamente corretto», senza lossessiva paura di venir criticati per la propria libertà intellettuale da partiti e giornali avversari, da lobby politiche, economiche e religiose. Ecco quindi i convegni sulle insorgenze antigiacobine, sui gulag sovietici, sulla rivolta ungherese, sulla Repubblica sociale, su «destra/destre», su Ezra Pound e su Julius Evola. Finanziò infatti, nel 1998, centenario della nascita del filosofo tradizionalista, un fondamentale convegno ed una storica mostra sulla sua pittura: intervenne alla inaugurazione, nonostante fosse stato visibilmente operato da poco. Non lo dimenticherò mai.
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